Nella stanza del musicista c’è

facciate

il musicista
uno strumento (anche se è un cantante, un compositore o un direttore d’orchestra)
una custodia (se lo strumento non è un pianoforte)
un leggio
uno spartito
tanti altri spartiti intorno
fogli pentagrammati prima, un pc adesso
una o più sedie (anche se suona in piedi)
un tavolo, forse
uno smartphone adesso, un diapason prima
musica

Prendete un musicista, immaginate la sua stanza, le pareti che lo circondano, la casa che abita al di fuori di quella stanza.
Non scomodate troppo la vostra fantasia nell’immaginare anche i vicini di casa, perché potrebbero non apprezzare le sfumature che stiamo tentando di tratteggiare e, anzi, rischieremmo di vederceli suonare al campanello della porta d’ingresso animati da ben diverso spirito.
Respinta l’immagine del vicino furioso, possiamo tornare alle nostre poetiche intenzioni, continuando a parlare di quei luoghi che i musicisti normalmente abitano e che proteggono le lunghe ore di studio e di lavoro.
Un libro giunto presente in Biblioteca musicale – Le case della musica di Piero De Martini – ci offre indizi interessanti su un aspetto curioso e intimo della vita di un musicista, tangente la dimensione di raccoglimento, studio e creatività e capace di restituirne una diversa, poco indagata e conosciuta che è quella del nomadismo professionale (e forse non solo).
Sorvolando per un momento l’ampio dibattito su come si stia trasformando l’atto creativo e generativo di contenuti anche artistici, iniziamo da una più modesta aneddotica, a suo modo utile.
Che Beethoven fosse tanto inquieto da decidere di cambiare 80 volte casa nella sua vita lo abbiamo appreso anche grazie ad uno spettacolo made in Turin (Va, Va, Va, Van Beethoven è il titolo); che fosse imprevedibile, irascibile, disordinato e anche un poco trasandato possiamo leggerlo nello spassoso Perché Beethoven lanciò lo stufato scritto da Steven Isserlis o vederlo facilmente confermato dalle immagini che son giunte fino a noi.

Il numero da Guinness dei primati dei traslochi di Beethoven è indubbiamente impressionante, ma molti altri musicisti hanno conosciuto un destino simile, fatto della necessità di spostarsi per seguire committenze, contatti, incarichi, occasioni, ispirazione. Fu così per Rossini, nato nell’edificio oggi conosciuto come Casa Rossini, museo dedicato all’illustre pesarese, dove tra gli altri oggetti e cimeli, si trova la spinetta che vide con tutta probabilità gli esordienti studi del giovanissimo Gioachino. Le sue mete d’oltralpe furono Londra per poco e Parigi per molto. Tornò in Italia, dove ad attenderlo c’era la città che lo amava di un amore ricambiato (A Bologna ho trovato ospitalità e amicizia) e Firenze, ma scelse definitivamente Parigi e la sua amatissima Villa di Passy per trascorrere gli ultimi dodici anni della sua vita. Fatta di ozi e di occasioni mondane, di cibo (tanto, tantissimo cibo) e di salotti musicali, di molta composizione in cucina, assai minore nelle stanze della musica.

L’elenco degli indirizzi di Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart è lungo quanto il suo nome e dall’appartamento preso in affitto nella casa di Getreidegasse 9 a Salisburgo da Leopold Mozart dopo il matrimonio con Anna Maria Pertl inizia il racconto nel volume citato.
Wolfgang è stato l’ultimo di sette figli, unico sopravvissuto insieme alla sorella Nannerl, entrambi affidati alle cure musicali del padre: che non si fece sfuggire l’artistica vocazione dimostrata dal figlio fin da piccolissimo, intento ad accompagnare ogni sua attività casalinga con i motivetti che gli passavano per la testa (per alcuni sacrificando quella di Nannerl).
Il trascorrere del tempo e le necessità dei figli ormai cresciuti, indussero i Mozart a trasferirsi in Makartplatz 8, in una casa più grande, che conserva alcuni degli strumenti suonati dal Wolferl (come lo chiamava il padre) nella sola stanza risparmiata dai bombardamenti successivi.
Con i viaggi del figlio, la morte della moglie e il matrimonio di Nannerl, anche Leopold lascerà la casa di Makartplatz. Wolfgang, a Vienna ormai da un po’, si sposta in otto diversi appartamenti, a seconda di quanto lavoro e  conseguente ampiezza del portafogli gli consentono. Dopo il matrimonio con Costanze, il nuovo indirizzo è in Domgasse 5, la Mozarthaus, unica rimasta delle tante abitate dal compositore e ricca di documenti storici relativi alla Vienna di quegli anni, di locandine originali e spartiti manoscritti, comprese quelle ultime note del Lacrimosa che commuovono al solo pensarle (e con ciò, udirle).

I luoghi di Gustav Mahler – il compositore boemo nato nel 1860 e morto nel 1911 dalla grammatica ancora inequivoca, limpidissima, nella quale l’investitura che il vocabolo e la frase assumono nella forma del pezzo, o semplicemente dalla collocazione strumentale, ha qualcosa di angosciosamente abnorme, e allude a insolubili problemi: che appunto nella loro inelubilità lasciano aperta, all’infinito, la prospettiva di Dio (Fedele d’Amico, 1960 in Gustav Mahler, il mio tempo verrà a cura di Gaston Furnier Facio) – sono molti e ci aiutano a penetrarne ancor più in profondità la sua personalità complessa e nevrotica.
Partendo da quelli dell’infanzia, accompagnata dalla presenza di una famiglia nata da un matrimonio infelice e cresciuta all’ombra di un padre eccessivo e ambizioso, impulsivo e violento, che sognò da subito per Gustav un destino migliore del suo. Dopo gli studi in Conservatorio a Vienna, la sua carriera come direttore d’orchestra ebbe un’accelerazione che lo portò ad Halle, Lubiana, Kassel, Lipsia e Budapest, dove conquistò il podio dell’Opera. Era il 1888, ma non portò a termine la stagione per, diciamo, divergenze di vedute con il sovrintendente del Teatro di Corte…
Dopo ci fu Amburgo, con qualche grattacapo amoroso e i numerosi grattacapi familiari che gli procuravano i suoi fratelli a Vienna, città dove tornò egli stesso nel 1897, questa volta chiamato a dirigere l’orchestra dell’Opera.
Eppure il suoi luoghi erano quelli che accoglievano le ore dedicate alla composizione. Dall’estate del 1893 prese a frequentare il villaggio di Steinbach am Attersee, in alta Austria e anche se le vacanze nascevano in compagnia della sorella Justi e dell’amica violinista Natalie Bauer-Lechner, Gustav si era fatto costruire una piccola casetta vicino alla loro locanda. Dentro vi si trovano un tavolo, un paio di sedie, un piano verticale, un divano e una stufa per le giornate fredde. Gustav vi si rifugia la mattina, e per molte ore esige di non essere disturbato.
Per comporre Mahler sfrutta i mesi estivi e i rifugi lontani dalle chiassose masse. Con l’incarico a Vienna, a rifiorire sono anche le sue entrate, tanto da potergli permettere la costruzione di una nuova villa sulle sponde del Wörthersee, a Maiernigg, alla quale, anche questa volta, viene affiancata una casetta poco più in alto, immersa in un fitto bosco e ancor oggi visitabile.
Nella sua vita ancora non c’era Alma. L’Alma voluta dal primo momento dopo averla incontrata nel novembre 1901 a casa dei Zuckerkandl. L’Alma più giovane di lui di 19 anni e che subito ricambia il trasporto del Maestro, nonostante l’opposizione dei suoi genitori, dell’entourage del compositore e le parole di Gustav stesso: non è tanto facile sposare un uomo come me. Sono completamente libero, lo devo essere, non posso legarmi materialmente in nessun modo. Il mio impegno con l’Opera può cessare da un giorno all’altro […]. E se fossi davvero troppo vecchio?
La carissima amica, l’Almschi, Almschili, la bambina come la apostrofa nelle lettere che da lì in poi prende a scriverle dalle stanze d’albergo durante i suoi tanti viaggi e con la quale, dopo il matrimonio, divide gli eleganti spazi degli appartamenti in Auenbruggergasse in città e quelli amati della casa di Maiernigg. Villa+casetta che gli saranno d’ispirazione e vedranno il compimento delle sue Quinta, Sesta, Settima e Ottava Sinfonia e dei Kindertotenlieder, presagio infausto della morte della figlia Anna Maria nel 1907, quando tutto precipita, portando Gustav ad ammalarsi di cuore e la coppia a lasciare sia Maiernigg che Vienna.
Nella loro vita ci sarà il trasferimento a New York per l’incarico al Metropolitan e un’altra casa per le vacanze nell’odierna Dobbiaco – con una nuova casetta per la composizione (Komponierhäuschen) – dove irrompe Das Lied von der Erde e poi, nell’esasperazione della crisi con Alma, la Decima dell’anno 10.

Ci perdonerete per esserci dilungati con Mahler, ma c’è sempre un preferito che ci sfugge.
Anche se la scoperta di una chicca che forse molti di voi già conoscono, ci offre il perfetto assist per la chiusura: Händel+Hendrix+London. Cercatelo e ci direte.

Di Laura Ventura