La malattia come condizione antropologica dell'esistenza nello spazio letterario de "La coscienza di Zeno"

Uno degli explicit più apocalittici della nostra letteratura è quello de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Ci sono, in questo finale, diversi spunti particolarmente interessanti, innanzitutto la considerazione della vita come malattia mortale, come condizione antropologica dell'esistenza: “la vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e per lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale”. La vita stessa, come ebbe a dire Thomas Mann ne La montagna incantata, non è altro che “una febbre della materia”, l'esistenza umana una sorta di malattia infettiva del nostro pianeta. L’unica cura possibile, secondo Italo Svevo, parrebbe essere quella esplosiva della visione conclusiva, in cui un gigantesco ordigno causerà una “catastrofe inaudita” che azzererà tutto il pianeta, facendolo tornare alla forma di nebulosa: la terra errerà nella solitudine degli spazi siderali, finalmente “priva di parassiti e di malattie”. Il racconto di Zeno si conclude così nel più nichilistico dei modi, frantumando ogni residuale traccia di speranza ma, come ogni scrittura estrema, come ogni scrittura del disastro (che non si appelli più ad alcuna buona stella come indica l'etimologia del termine), reca anche sottotraccia una via di uscita. Questa dialettica tra malattia e salute, si può sempre articolare in un investimento creativo nella vita, pur sapendo che essa ha un limite definitivo, una catastrofe finale, non solo la morte del pianeta ma la nostra stessa morte, che - come afferma Zeno Cosini - si va accostando a noi di settimana in settimana. La perfetta salute della moglie di Zeno, Augusta, rivela infatti, nel corso del romanzo, tutta la sua inconsistenza; essa è solo una mancanza di consapevolezza intellettuale e spirituale: “la salute non analizza se stessa e neppur si guarda allo specchio”. Le regole di comportamento di Augusta sono certamente semplici e lineari, prima tra tutte vivere contenti di ciò che si ha, senza tormentarsi sul significato dell’esistenza: ”compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi”. Le difficoltà della vita, nelle mani della moglie Augusta, cambiano natura; se anche la terra gira, tutte le altre cose rimangono per lei al loro posto: “le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano quelle ore e si trovavano sempre al loro posto”. Sul finale della sua autobiografia Zeno, quasi allievo di Nietzsche, opererà una trasvalutazione dei valori ed arriverà ad affermare di soffrire di certi dolori ma che essi “mancano d'importanza” all'interno di una più “grande salute”. Non è dunque la perfetta salute a cui dobbiamo aspirare ma quella grande, delineata da Nietzsche ne La gaia scienza, nell'Aforisma 382: “una salute che non soltanto si possiede, ma che di continuo si conquista e si deve conquistare, poiché sempre di nuovo si sacrifica e si deve sacrificare”. La presunta malattia di Zeno va considerata una forma paradossale di “grande salute”, ovvero un modo di vivere limpido e generoso, orientato verso l'equanimità, verso un relativismo irriverente ed autoironico, senza alcuna concessione a forme di superomismo di impronta ideologico-politica. Da un lato Zeno salva la propria libertà interiore sotto la scorza del bravo borghese dedito ai commerci, che irride gli stessi valori della società conformista in cui agisce, dall'altro la forza conoscitiva della creazione letteraria che Zeno compie, nel tentativo di comprendere la sua vita, diventa una sonda gettata ad indagare il mistero di che cosa significhi appartenere all'umanità e condurre la propria esistenza come esseri umani. 

Stefania Marengo

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