“Un confuso fermento di idee”: politica, amministrazione e costituzione nell’ultimo fascismo (1943-1946)

Conservato presso il Centro di Ateneo per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea dell'Università di Padova

di Jacopo Bernardini

Il contesto della ricerca

Le ricerche storiche sulla Repubblica sociale italiana risultano pressoché inesistenti fino alla fine degli anni Sessanta. Ogni tematica relativa al periodo saloino viene volutamente disconosciuta dopo la Liberazione dalla storiografia antifascista quale argomento meritevole di analisi. Per quasi quarant’anni le ricerche sulla Resistenza e il biennio 1943-45 procedono, infatti, manifestando un sostanziale disinteresse per il simultaneo approfondimento delle vicende della RSI, considerata come semplice realtà di fondo dell’occupazione nazista dell’Italia Centrale e Settentrionale.
Nonostante il mutamento della sensibilità storiografica a partire dagli anni ‘80 , gli studi sull’azione svolta dagli enti territoriali della RSI nel quadro di dipendenze caratterizzato dal rapporto di collaborazionismo con l’occupante tedesco si presentano ancora inadeguati. Considerare la Repubblica di Salò come uno Stato di fatto, subalterno alle autorità del Reich, ha svilito a priori l’autonomia della condotta fascista.
A differenza di quanto avvenuto per gli studi sul fascismo di regime, la ricerca non è per ora riuscita a dare spessore al ruolo politico ricoperto sia dal sistema amministrativo centrale che dal sistema amministrativo periferico, né a verificare attraverso lo studio delle figure istituzionali e politiche di spicco a livello locale persistenze o rotture a livello di uomini con il fascismo di regime. 

Per non lasciare emergere un’immagine marginale della Repubblica sociale ho ritenuto necessario, nella mia tesi, fare leva su parte di quel materiale propagandistico e su quei memoriali, diari, saggi e articoli passati in secondo piano ma in cui potevano emergere i protagonisti di quel periodo ed il ruolo che era stato giocato dai diversi interpreti.
Per approfondire il mio lavoro di tesi, grazie alla collaborazione delle Biblioteche civiche torinesi presso cui sono impiegato in questi mesi nell'ambito del servizio civile universale, si è resa possibile la ricerca e la pubblicazione di una bibliografia dedicata a cui si è aggiunta, nel rispetto della legislazione al riguardo, la digitalizzazione (grazie al prezioso supporto tecnico dell'Accademia delle Scienze) del materiale individuato.
In tal modo la Biblioteca civica Centrale potrà garantire la conservazione e l'accesso ai materiali originali rendendo disponibili in rete i files digitali
delle pubblicazioni oggetto della mia ricerca, che ho intenzione di estendere nel tempo redigendo una bibliografia completa del materiale disponibile in area torinese.

I documenti digitalizzati

La digitalizzazione dei documenti (avvenuta grazie al supporto tecnico dell'Accademia delle Scienze) ora in corso di caricamento su Internet Archive non è ancora terminata, ma il materiale disponibile è già sufficiente a offrire un'ampia panoramica sul posseduto della Biblioteca civica Centrale.

Amicucci, Ermanno

  • Rinascita, [S.l.], Erre, 1944

    Molti vecchi compagni di Mussolini lo scoraggiarono dal parlare apertamente di fascismo dopo il suo ritorno nel settembre 1943: essi volevano che guidasse un movimento di rigenerazione nazionale che trascendesse l'ideologia, forgiando un governo forte composto da uomini di diverso orientamento politico e credo. Si voleva evitare un bagno di sangue fraterno proponendo un programma che consistesse in un'assemblea costituzionale, la fine del partito unico, riforme sociali e alcune libertà di stampa, un programma che equivaleva a una radicale ristrutturazione del fascismo che avrebbe progressivamente abbandonato la dittatura e la complicata alleanza con la Germania nazista. «Perisca la fazione purché viva la Nazione» sembrava essere il loro motto.
    Numerose voci si levarono a favore della riconciliazione: tra le più importanti quella di Concetto Pettinato, direttore della Stampa, e quella di Ermanno Amicucci del Corriere della Sera: questi protagonisti della stampa italiana sembravano non tollerare le sempre più pressanti ingerenze tedesche in ogni sede decisionale. Era necessario superare i rancori, gli odi, le discordie e le faziosità poiché non era il momento «di faide sterili» ma di «concordie superlative». Questo orientamento permetteva inoltre  al direttore del “Corriere” di riportare il giornale su una linea consona al «suo ruolo» di portavoce degli «uomini posati del ceto medio».


    Riferimenti
    Forno, Mauro, La stampa del Ventennio : strutture e trasformazioni nello Stato totalitario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005
     

Barracu, Francesco Maria (1885-1945)

  • Tre discorsi : Alla gente di Sardegna, Giuramento di popolo, giuramento di re, Frades de sa terra mia, [S.l.], Erre, 1944
    L’eroe di guerra Francesco Maria Barracu venne scelto come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Descritto come uno «specialista del doppio gioco», dopo aver vinto la Medaglia d'Oro per il valore militare per la sua condotta in Etiopia godette di un certo prestigio, per molti gerarchi superiore ai suoi meriti e alla sua qualità. Con la benedizione di Mussolini assistette il segretario del Partito fascista repubblicano Pavolini nella formazione di unità clandestine capaci di utilizzare qualunque mezzo - terrorismo incluso - per destabilizzare l’avanzata Alleata. Secondo un’informativa rinvenuta da Nicola Tonietto nell’archivio della divisione Servizi informativi e speciali del Ministero dell’Interno, già nell’ottobre del 1943, per ordine di Mussolini, il segretario del Pfr si occupò di formare dei gruppi di «elementi fascisti di provata fede» per «creare un movimento di rinascita del fascismo nell’Italia meridionale». Francesco Barracu cercò di organizzare – fallendo - una rete informativa politico-militare e di propaganda in Sardegna. Ebbe, inoltre, un ruolo chiave nel trasferimento al nord dei funzionari dei ministeri e nell'organizzazione dell'amministrazione repubblicana.


    Riferimenti
    Franzinelli, Mimmo, Storia della Repubblica sociale italiana, 1943-1945, Laterza, 2020


Biggini, Carlo Alberto (1902-1945)

  • Storia inedita della Conciliazione, [Milano], Garzanti, 1942
    Carlo Alberto Biggini divenne ministro dell'Istruzione. Nato a Sarzana il 9 dicembre 1902, per molto tempo, mantenne un ruolo di secondo piano nel regime fascista, forse per la sua adesione tardiva al Pnf, avvenuta solo nel 1928. Coetaneo di Pavolini, la sua storia personale e la sua carriera politica maturarono in ambienti radicalmente diversi, come vedremo nel capitolo a lui dedicato e riguardante il suo progetto costituzionale. Sebbene fosse un fervente sostenitore di Mussolini e fermo alleato della Germania nazista, Biggini lavorò sovente per mitigare alcune delle misure più drastiche dei suoi colleghi. Si oppose al licenziamento degli insegnanti della scuola che rifiutavano di firmare un giuramento di fedeltà alla Rsi e svolse un ruolo significativo nel nascondere i tesori d'arte italiani ai tedeschi. Non così lodevole fu la sua politica nei confronti degli ebrei. Il 10 dicembre 1943 Biggini firmò un decreto che ordinava il sequestro di tutte le opere d'arte appartenute agli ebrei, una misura che sembrava preannunciare ulteriori persecuzioni della comunità. La sua attività politica e giornalistica venne notata da Mussolini che, nel dicembre 1939, gli diede l’incarico di scrivere la storia della Conciliazione, incarico portato a termine sei mesi dopo: Storia inedita della Conciliazione, tuttavia, dopo le correzioni apportate da Mussolini stesso, uscì per Garzanti solo nell’11 febbraio 1942 e, nonostante il lancio d’eccezione, non ricevette una calorosa accoglienza.


    Riferimenti

    Garibaldi, Luciano, Mussolini e il professore : vita e diari di Carlo Alberto Biggini, Milano, Mursia, 1983
     

Bombacci, Nicola (1879-1945)

  • Questo è il comunismo, Venzia, Casa editrice delle Edizioni popolari, 1944
    Il risultato del congresso del Partito fascista repubblica a Verona fu l’approvazione del “Manifesto”, documento in 18 punti, steso a più mani, il cui contributo determinante venne da Pavolini e da Nicola Bombacci. In particolare, il bagaglio ideologico di quest’ultimo rifletteva meglio la visione politica del duce rispetto a quella portata avanti dal suo segretario di partito, iniettando così, nella carta, uno spirito più “socialistico” che “corporativistico” a cui Pavolini dovette di fatto piegarsi, dato il sostegno che trovava in larghi strati del partito. Sia Bombacci che Mussolini videro nella Rsi il culmine del processo rivoluzionario iniziato nel 1919. L’ex fondatore del Partito Comunista d'Italia sembrava convinto che la liberazione dal pesante fardello monarchico potesse riportare Mussolini alle sue iniziali posizioni socialiste. Gli intensi contatti tra Mussolini e Bombacci sin dagli ultimi mesi del 1943 e nei primi del 1944 sono noti: pur non ottenendo alcun incarico ufficiale, divenne consigliere del duce e gli vennero affidati alcuni studi di carattere pratico, come alcune analisi riguardo il problema delle case per i lavoratori. Alcuni studiosi individuano proprio in Bombacci l’autore della bozza di Costituzione allegata agli atti del Consiglio dei ministri del 16 dicembre 1943 ed attribuita a Carlo Alberto Biggini.

    Riferimenti
    Salotti, Guglielmo,
    Nicola Bombacci da Mosca a Salò, Roma, Bonacci, 1986
    Petacco, Arrigo,
    Il comunista in camicia nera : Nicola Bombacci, tra Lenin e Mussolini, Milano, Mondadori, 1996


Borsani, Carlo (1917-1945)

  • Nel combattimento è la libertà, nell'onore è la nostra vita: discorso pronunciato a Fiume il 18 novembre 1944, Roma, Ministero della cultura popolare, 1944
    In assenza del defunto "Il popolo d'Italia", Mussolini voleva fondare una nuova rivista repubblicana e fascista che parlasse la sua lingua. Nel gennaio 1944 affidò a Carlo Borsani, presidente dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra, il compito di lanciare La Repubblica Fascista. Borsani era un veterano di guerra decorato e soprattutto non condivideva le politiche di Pavolini, così come il maggiore Fulvio Balisti, ex comandante del battaglione dei giovani fascisti a Bir El Gobi, che attaccò il segretario del Pfr nelle assemblee del partito per le sue politiche estremiste e i suoi metodi dittatoriali. Una fronda volta a porre «prima l'Italia del fascismo» si concretizzò in questi due personaggi. A ciò si univa così uno scontro generazionale: un manifestino diffuso dalla brigata nera milanese Aldo Resega contrapponeva i giovani ai «vecchi rottami del passato» i quali tentavano «diabolicamente di sommergere la più pura giovinezza italica». A questa giovinezza audace e combattentistica veniva ricondotto Borsani, che poteva così contare tra le sue file anche la «gioventù delle trincee». Pavolini rispose attraverso Mezzasoma, impostando un controllo più rigido sull’informazione.

    Riferimenti

    Pavone, Claudio, Una guerra civile, Torino, Bollati Boringhieri, 2006


Bottai, Giuseppe (1895-1959)

  • Vent'anni e un giorno: 24 luglio 1943, Milano, Garzanti, 1949
    Giuseppe Bottai era particolarmente attanagliato dal dilemma della fedeltà nei confronti di Mussolini, dato che si era sempre distinto, durante il ventennio, per un coinvolgimento totale nella politica del regime: diversi furono i settori nei quali operò ininterrottamente, sia da intellettuale che da uomo di governo, dal 1923 al 1943: Sottosegretario dal 6 novembre 1926, e poi ministro delle Corporazioni dal 12 settembre 1929 al 20 luglio 1932, ministro dell’Educazione nazionale dal 15 novembre al 6 febbraio 1943, Bottai fu membro del Gran Consiglio ininterrottamente dal gennaio 1927 al 25 luglio. L’Impero, per Bottai, aveva mutato profondamente Mussolini, sempre più accecato dalla ricerca della gloria militare: dinamica che fu acuita con la Seconda guerra mondiale, quando il primo disastro militare italiano in Grecia rivelò le gravi carenze del regime totalitario, che investivano ogni suo settore. Queste critiche rimasero tuttavia ben confinate all’interno del suo diario personale. Pur non considerando il duce l’unico responsabile del disfacimento del Paese, Bottai nelle due settimane precedenti il 25 luglio ebbe un ruolo importante nell’avviare il corso di azioni che portarono alla convocazione del Gran Consiglio.

    Riferimenti

    Bottai, Giuseppe, Diario 1935-1944, Milano, Rizzoli, 1982
     

Castellano, Giuseppe (1893-1977)

  • Come firmai l'armistizio di Cassibile, Milano, Mondadori, 1945
    I negoziati tra l’Italia badogliana e gli Alleati vennero definiti un «inganno reciproco» da Elena Aga Rossi. Il generale Giuseppe Castellano, inviato a Lisbona per trattare con gli Alleati, sosteneva di essere autorizzato dal suo governo a manifestare la volontà italiana di partecipare con gli angloamericani alla guerra alla Germania, non conoscendo in realtà la posizione di Badoglio e di Vittorio Emanuele III. Il generale Dwight Eisenhower, comandante in capo di tutte le forze armate del Mediterraneo, giudicò favorevolmente la cosa, in quanto l’operazione Avalanche, che prevedeva lo sbarco nel golfo di Salerno, era imminente. I generali che Eisenhower mandò a Lisbona per trattare con Castellano in Agosto, pur insistendo sull’accettazione italiana della resa senza condizioni, accettarono di giungere a un armistizio esclusivamente militare, che sarebbe stato poi definito l’armistizio «corto» - quello firmato a Cassibile il 3 settembre 1943 -. Le condizioni dell’armistizio generale – l’armistizio «lungo» – si sarebbero stabilite in base al contributo dato dagli italiani contro il Terzo Reich.
    Tuttavia gli americani erano estremamente delusi dai tentennamenti mostrati da Badoglio. Venuta meno la fiducia, essi non vollero rivelare subito la data del loro sbarco ormai prossimo. Il 7 settembre arrivò a Roma il generale Maxwell Taylor, vicecomandante della divisione aviotrasportata, per verificare lo stato di preparazione da parte italiana. Il generale americano comunicò al generale Carboni che l’operazione Avalanche era già avviata e che l’armistizio sarebbe stato annunciato il giorno seguente: egli aveva avuto il compito di organizzare la difesa di Roma. Carboni, tuttavia, era stato informato da Castellano l’avvio delle operazioni non sarebbe avvenuto prima del 12 settembre. Taylor sapeva bene che Eisenhower non avrebbe mai dato il contrordine, e così fu. L'8 settembre 1943, con grande costernazione dei negoziatori italiani, il Comandante alleato, Dwight D. Eisenhower, trasmise in quello stesso giorno a Radio Algeri la notizia che l'Italia si era arresa alle forze Alleate.

    Riferimenti
    Aga-Rossi, Elena, Una nazione allo sbando: l'armistizio italiano del settembre 1943, Bologna, Il mulino, 1998


Mastri, Paolo (1871-1944)

  • La rocca delle Caminate: il castello del duce, Bologna, Zanichelli, 1927
    Libero dalla sua prigionia sul Gran Sasso, Mussolini, pilotando un aereo da guerra tedesco, atterrò a Forlì il 23 settembre e fu portato a Rocca delle Caminate, la sua residenza estiva, dove convocò diverse persone per forgiare un nuovo governo. In questa Rocca in Emilia-Romagna si tenne, il 28 settembre 1943, il primo Consiglio dei ministri della Repubblica sociale italiana. 

    Riferimenti

    Salò capitale : breve storia fotografica della R.S.I.,
    a cura di Silvano Vinceti, Roma, Armando, 2003


Mezzasoma, Ferdinando (1907-1945)

  • La nostra intransigenza, Venezia, Casa editrice delle Edizioni popolari, 1944
    Daniella Gagliani nota come nella storiografia sovente si collegasse la nascita della Repubblica sociale italiana con la riemersione del «vecchio fascismo», dello squadrismo, di quelle personalità che avevano dato vita al fascismo ma che non avevano poi ottenuto vantaggi o privilegi, o semplicemente si erano allontanati da un regime che non si era evoluto nel senso loro desiderato. Quando il fascismo riemerge dalle sue ceneri nel settembre del ‘43 questi personaggi, messi in disparte durante il regime, sarebbero ricomparsi in chiave predominante. Questa visione non va totalmente negata. In contrasto con i nazionalisti conservatori e la classe burocratica, che vedevano in Mussolini un “cuscinetto” tra il popolo italiano e i vendicativi tedeschi, alcuni fascisti sostenevano attivamente un ritorno alle origini “rivoluzionarie” del partito fascista. Per loro i «commoventi» appelli alla concordia nazionale lasciavano «il tempo che trovano»: punto cardine era la vendetta verso i responsabili del recente passato catastrofico, coloro che avevano ingannato e tradito Mussolini. L'intransigente Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura Popolare della Repubblica sociale italiana, esortò ad ignorare ogni appello di quei “pietisti e pusillanimi” che spingevano verso la riconciliazione.
    La ricerca di «metodi nuovi e uomini nuovi» per Salò, suscitando diverse accese polemiche, si chiuse repentinamente con la circolare di Mezzasoma del 18 aprile 1944: «l’alleato germanico attende da noi il contributo concreto della partecipazione al combattimento ed al lavoro [...] Questo è il dovere che dobbiamo assolvere senza ulteriori e delittuosi indugi, se non vogliamo che sulla bandiera della Repubblica sociale italiana, al posto del verbo “combattere” si debba scrivere il verbo “discutere”».


    Riferimenti

    Gagliani, Dianella, Brigate nere : Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Torino, Bollati Boringhieri, 1999
    Klinkhammer, Lutz, L’occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2016
     

  • Per non rinunciare alla vita: 23 marzo 1919 - 23 marzo 1944, [S.l.], Erre, 1944
    Per il ruolo di ministro della Cultura popolare della nuova Repubblica di Mussolini venne scelto il romano Fernando Mezzasoma. Iscritto ai Fasci nel 1921, nella sua carriera durante il ventennio fu segretario dei GUF di Perugia dal 1932 al 35 e  condirettore dell’organo dei GUF Libro e moschetto nel 1937-38, ricoprendo le carica di vicesegretario del PNF dal 1939 al 1942 e di direttore generale della stampa italiana dal 1942 al 43. Le strategie di manipolazione dell’opinione pubblica erano il suo pane quotidiano, e in quel momento più che mai c’era bisogno della propaganda. I pochi spazi di manovra lasciati dai tedeschi e l’ostilità dell’opinione pubblica verso molti dei gerarchi presenti nel nuovo governo Mussolini lasciavano giusto lo spiraglio della manipolazione dell’opinione pubblica per racimolare consensi. Ben presto sulla Repubblica sociale italiana calò un «universo fantasmatico» creato dalla stampa neofascista, la quale «predica odio contro i nemici e diffonde leggende di ogni genere». Tuttavia non tutti credevano nelle abilità di Mezzasoma: il giornalista italiano fascista Felice Bellotti lo descrisse come un «uomo mediocre per quanto riguarda l'intelligenza, senza alcuna intuizione politica».

    Riferimenti
    Amicucci, Ermanno,
    I 600 giorni di Mussolini, Roma, Faro, 1948
    Ganapini, Luigi, La repubblica delle camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Milano, Garzanti, 1999


Mussolini, Benito (1883-1945)

  • Non vi è che una strada, quella del combattimento e dell'onore: discorsi pronunciati alle divisioni italiane in addestramento in Germania, [S.l., s.n.], 1944
    Il 9 ottobre 1943, a colloquio con Hitler, Rodolfo Graziani - scelto come ministro della Difesa - espose il suo progetto di riorganizzazione delle Forze Armate concordato sei giorni prima con Mussolini. L’ideale per quest’ultimo sarebbe stato costituire un esercito di volontari scelti tra gli internati nei campi di concentramento del Reich, ma Hitler sosteneva che il morale degli uomini sarebbe stato troppo basso a causa degli stravolgimenti dell’armistizio. Il Führer non sembrava affatto credere in una ripresa militare italiana: quattro divisioni costituivano il massimo che si pensava di poter concedere all’«alleato occupato». Entro il 15 novembre 1943 tutte le reclute avrebbero dovuto raggiungere i campi di addestramento per poi addestrarsi in Germania. Il trasferimento in Germania per l’addestramento preoccupava Mussolini per i possibili malumori che poteva creare in una popolazione già disillusa dal fascismo: per questo più volte nel corso dei 600 giorni di Salò troviamo il duce pregare il Comando militare tedesco di selezionare almeno i migliori elementi tra i militari internati in Germania per costituire le quattro divisioni previste. Nella tarda estate del ’44 tornarono in Italia i primi reparti addestrati nel Reich, la divisione di fanteria San Marco e la divisione alpina Monterosa. Entrambe, assieme a tre divisioni tedesche, finirono per formare l’armata Liguria: la sua funzione si orientò principalmente alla lotta partigiana, dato che i tedeschi non avevano alcuna intenzione di adoperare truppe italiane al fronte. Solo verso la fine di ottobre sarà la volta del rientro della divisione granatieri Littorio e, in dicembre, della divisione bersaglieri Italia, ma ormai all’iniziale entusiasmo per il rientro in patria si erano sostituite la disillusione e lo sconforto. La prospettiva di dover combattere contro altri italiani in una sanguinosa guerra civile rispetto alla prospettiva di riscattare l’onore della nazione scontrandosi con gli angloamericani generò sentimenti contrastanti tra gli uomini delle nuove divisioni, favorendo la diffusione di un malcontento che presto si trasformò in diserzioni.

     

    Riferimenti
    Canosa, Romano,
    Graziani : il maresciallo d'Italia, dalla guerra d'Etiopia alla Repubblica di Salò, Milano, Mondadori, 2004
    Oliva, Gianni, La Repubblica di Salò, Firenze, Giunti Casterman, 1997
     

  • Italia, repubblica, socializzazione: discorso pronunciato al quartier generale il 14 ottobre 22, [S.l., sn.], 1944
    L'approvazione, durante il congresso del Partito fascista repubblicano al Castelvecchio di Verona, del “Manifesto”, voleva dimostrare - almeno nelle intenzioni - i maggiori interessi del neonato fascismo repubblicano in campo sociale. Dei suoi 18 punti, divisi a loro volta in tre titoli, il primo - “Materia costituzionale e interna” - raggruppava i primi 7 punti; il secondo, “Politica estera”, il solo punto numero 8; il terzo titolo, “Materia sociale”, raccoglieva i punti dal 9 al 18 ed era senza dubbio il più approfondito. Il manifesto di Verona mise in primo piano il tema della socializzazione non usando specificatamente questo termine: pur riconoscendo la legittimità della proprietà privata – dinamica non eccessivamente scontata il quel momento - veniva affermato che il lavoro era «base della Repubblica e suo oggetto primario». Si affermava inoltre, nell’undicesimo punto del manifesto, che tutto ciò che usciva dall’interesse del singolo entrava necessariamente a far parte della sfera d’azione statale. Conformemente al desiderio di Mussolini di trovare la famigerata “Terza via” tra capitalismo e comunismo, Angelo Tarchi, nominato capo del nuovo Ministero dell'Economia corporativa il 10 dicembre 1943, non perse tempo e l’11 gennaio 1944 fece il suo esordio in Consiglio dei ministri con la «Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell'economia italiana». In essa si proclamava la socializzazione di alcune imprese specifiche, promettendo una maggiore partecipazione degli operai nella gestione delle aziende e anticipando parzialmente nei contenuti il decreto sulla socializzazione pubblicato dal Consiglio dei ministri il 12 febbraio. Veniva prevista la cogestione degli operai alla direzione della fabbrica tramite i Consigli di gestione e la partecipazione delle maestranze alla proprietà delle azioni.

    Riferimenti

    Santomassimo, Gianpasquale, La terza via fascista : il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006
     

  • Storia di un anno : il tempo del bastone e della carota, Milano, Mondadori, 1944


Pavolini, Alessandro (1903-1945)

  • 28 ottobre 1943: ritorno alle origini, [S.l.], Erre, 1943
    Dopo l’armistizio Heinrich Himmler, Joseph Goebbels e Martin Bormann cercarono di definire una politica di occupazione per l’itala: essi erano convinti che la Wehrmacht non possedesse una forza tale da imporre un regime basato sulla sola coercizione, propendendo così un governo collaborazionista, la cui composizione avrebbe dovuto essere più chiaramente definita. Malgrado l’urgenza, il governo non poteva essere costituito in Germania, dato che il gruppo di fedelissimi che avevano seguito Mussolini dopo il 25 luglio era troppo risicato per permettere una scelta ponderata della compagine governativa. Gran parte dei papabili erano «invisi non solo agli italiani, ma alla gran parte degli stessi fascisti», ma, allo stesso tempo, protetti dalle massime cariche del Reich: la pressione era dunque costante su Mussolini. Il giornalista Ermanno Amicucci ha osservato come le prime scelte del duce, Buffarini e Pavolini, in quanto rappresentanti della "vecchia guardia", fossero «vecchi e screditati» gerarchi. Sottoposto alle pressioni del suo entourage, Mussolini nominò Alessandro Pavolini segretario del Partito Fascista Repubblicano. Personalità ricca di contraddizioni, fu scelto dal duce poiché fascista di vecchia data e al tempo stesso giovane d’età: iscritto ai Fasci nel 1920, fu membro del direttorio dei GUF e delegato provinciale dell’ONB, vicesegretario del fascio fiorentino (1928-29) e segretario federale fino al 1934, oltre che direttore dell’organo della federazione locale “Il Bargello”. Le autorità naziste, tuttavia, avevano diverse perplessità riguardo la sua nomina, date alcune accuse pesanti a lui rivolte su possibili frequentazioni di amici fiorentini ebrei e legati al cosiddetto «circolo Ciano». Nonostante ciò Pavolini, Ministro della Cultura popolare dal 1939 al 1943, credeva fermamente che il Patto d'Acciaio fosse «per l’Italia Repubblicana il patto d'onore […]», «equazione storica» che doveva permeare «tutta l’azione del nostro governo». Proprio per poter scegliere i membri di quest’ultimo Pavolini venne incaricato di recarsi a Roma per rendersi conto della situazione e per far avere a Mussolini una lista di nomi disponibili.

    Riferimenti

    Petacco, Arrigo, Il Superfascista. Vita e morte di Alessandro Pavolini, Milano, Mondadori, 1998

     
  • Il figliuol prodigo dell'eroismo: Ettore Muti, [S.l.], Erre, [194.]

    I fascisti, di fronte alla caduta del loro leader, perlopiù si nascosero, timorosi verso possibili, e probabili, vendette. Tuttavia alcuni non si limitarono a «scritte sui gabinetti pubblici» inneggianti al duce: c’era chi, nell’ombra e «nell’inedita dimensione della clandestinità», iniziò a lavorare per raccogliere i cocci dell’appena caduto regime fascista. L’ex segretario del Pnf Ettore Muti fu solo uno dei tanti rappresentanti del fascismo che cercarono di salvare il salvabile: già il 30 luglio, infatti, il capo della polizia rende consapevoli i questori del fatto che «si hanno concordanti notizie che esponenti cessato regime cercherebbero riorganizzare partito fascista», esortandoli a adottare le misure necessario per impedire che ciò accada.. Badoglio, rinnovando almeno sulla carta l’alleanza con i tedeschi, permette ai nostalgici del regime fascista di intensificare la loro attività grazie alla presenza dei nazisti sul territorio italiano. Questi «fascismi paralleli» costituiranno l’ossatura del futuro Partito fascista repubblicano di Pavolini.

    Riferimenti
    Petacco, Arrigo, Ammazzate quel fascista! : vita intrepida di Ettore Muti, Milano, Mondadori, 2002
    Griner, Massimiliano,
    La pupilla del duce : la Legione autonoma mobile Ettore Muti, Torino, Bollati Boringhieri, 2004
     

  • Nel XXII annuale della Marcia su Roma: discorso pronunciato a piazza S. Sepolcro a Milano il 28 ottobre XXII. [S.l., s.n.], 1944
    Il «Governo Nazionale Fascista» che operava nel nome di Mussolini si era costituito prima della liberazione di quest’ultimo grazie all’impulso fondamentale di Alessandro Pavolini. In qualche modo il duce doveva al suo fedelissimo segretario questa seconda possibilità che gli presentava, indipendentemente dal fatto che la volesse o meno. rapporti di forza sembravano perciò ribaltarsi: Mussolini, che aveva spesso sottolineato, durante il regime, come lo Stato dovesse venire prima del Partito, ora si trovava quasi costretto a riconoscerne un ruolo diverso, del tutto nuovo ed inedito. Pavolini alla radio, parlando dell’anniversario della marcia su Roma, poteva così ricordare agli italiani che i fascisti repubblicani erano gli stessi che «ventun anni fa marciavano su Roma». Pavolini, strenuo sostenitore del primato del partito unico e dell’intransigenza rivoluzionaria delle origini, temeva le tendenze pluripartitiche che animavano i “moderati” all’interno dell’universo fascista repubblicano. Il messaggio di Pavolini era chiaro: l'unica Italia possibile doveva essere composta da squadristi. Una volta riattivata la Milizia, le squadre d’azione avrebbero dovuto confluirvi per garantire la sopravvivenza del partito e della stessa rivoluzione. Questi erano i passi necessari da seguire per passare rapidamente da “Paese inerme a Paese combattente”. Il crollo della Guardia nazionale repubblicana - progettata per sostituire e inglobare i Reali Carabinieri, la MVSN e la Polizia dell'Africa Italiana (PAI) ma incapace di ottenere il controllo sul territorio della RSI, fece gioco a Pavolini, il quale riuscì a convincere Mussolini della necessità di trasformare il partito in un organismo di tipo militare: nascevano così, il 30 giugno 1944, le Brigate Nere.

    Riferimenti
    Deakin,
    Frederick William, Storia della Repubblica di Salò, Toirno, Einaudi, 1974


Pettinato, Concetto

  • Sogno e realtà, [S.l.]: Edizioni erre, 1944
    La separazione «fisica» del governo e dei suoi funzionari dal resto del Paese era al centro dell’articolo di Concetto Pettinato Se ci sei batti un colpo - pubblicato sul quotidiano torinese La Stampa il 21 giugno 1944 - il quale era desideroso di «poter vedere, ascoltare e toccare con mano il governo, perché in certe situazioni la gente crede soltanto alla presenza concreta». Veniva messa in luce anche l’assenza di un esercito affidabile e di una forza di polizia disciplinata. Il governo della Rsi venne paragonato a uno spettro che si manifesta durante un raduno spirituale: l'alleato tedesco, lungi dal fornire la chiave di volta riguardo il conflitto, stava deludendo fortemente le speranze di rinascita della repubblica di Mussolini, la cui sovranità, a causa di una forza militare inadeguata, era «fatalmente esposta a mille pericoli». La Cassazione, durante il processo a Concetto Pettinato ad inizio 1947, affermò che non costituiva reato di collaborazionismo «la propaganda giornalistica svolta per la Repubblica sociale italiana» se essa veniva portata avanti «al di sopra di ogni preconcetta ideologia e di ogni faziosità». Come riportato su “La Stampa”, le testimonianze dell’accusa erano rappresentate «da 83 articoli scritti dall’imputato» durante i seicento giorni di Salò: Pettinato, per difendersi da tali accuse, citò il suo famoso articolo citato precedentemente, affermando di avere «contrarie tutte le gerarchie del partito». Per giustificare la sua adesione alla repubblica di Mussolini il giornalista tirò in ballo il pericolo di una spoliazione del territorio nazionale da parte della Germania nazista, elemento centrale nella difesa di molte personalità del periodo.

    Riferimenti

    Pavone, Claudio, Alle origini della Repubblica : scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995
    Franzinelli,
    Mimmo, L' amnistia Togliatti: 22 giugno 1946, Milano, Mondadori, 2006


Saini, Ezio (Italicus) (1916-1989)

  • Il tradimento di Badoglio, Milano, Mondadori, stampa 1944
    Il venir meno delle più alte cariche militari e dello Stato dopo l’armistizio ebbe conseguenze assai peggiori di una sconfitta sul piano militare, dando luogo a un disfacimento non solo dell’esercito ma anche della società italiana. Restava, nell’Italia occupata dalle forze nazifasciste, la percezione dell’8 settembre come di un vero e proprio tradimento, anzi, come diversi tradimenti. Il tradimento della patria, onta tale da portare alcuni, come il diplomatico Luigi Bolla, a rammaricarsi «di essere nato italiano»; il tradimento del fascismo in cui fino ad allora molti italiani avevano dimostrato di credere; il tradimento dell’alleanza con i tedeschi, con cui per tre anni si era combattuto fianco a fianco; il tradimento del sacrificio fatto da molti italiani caduti. Un’idea di tradimento che trova linfa attraverso i mezzi di informazione, ricevendo così la sua consacrazione a livello collettivo. Su questa sensazione di sconforto, sulla percezione dell’inutilità di tutti quei morti e di quella sofferenza, su questi sentimenti fece leva, fin da subito, la propaganda tedesca con l’obiettivo di reclutare tutti coloro che si dimostravano propensi a continuare a combattere fianco a fianco con il vecchio alleato nazista.


    Riferimenti

    De Felice, Renzo, Mussolini l’alleato 1940-1945, vol.II, La guerra civile, Torino, Einaudi, 1997

     

Villari, Luigi (1876-1969)

Associazione fra le società italiane per azioni

  • La socializzazione delle impreseRoma, Associazione fra le società italiane per azioni, 1945  

    Durante l'inverno del 1941, improvvisamente, Mussolini parlò di un programma di socializzazione che avrebbe visto il lavoro partecipare attivamente: ciò avrebbe dovuto realizzarsi sono con una conclusione positiva del conflitto. L'epoca in cui il duce aveva permesso ai capitalisti di sfruttare la posizione subordinata dei lavoratori sembrava dover giungere al termine: Mussolini era deciso nel rianimare il "vero" fascismo, liberato da compromessi e trasformismi. Lo Stato avrebbe dovuto assumere la gestione e il controllo su tutte le imprese essenziali per garantire l'indipendenza economica della nazione. Il capitale degli istituti “socializzati” sarebbe stato trasferito all’Istituto di gestione e finanziamento, il quale avrebbe dovuto assorbire le funzioni dell'Istituto mobiliare italiano e dell'Istituto di ricostruzione industriale. I proprietari del capitale di tali imprese nazionalizzate, la cui gestione e controllo sarebbe passata allo Stato attraverso l'Istituto di gestione e finanziamento, avrebbero ricevuto il valore del loro capitale sotto forma di buoni fruttiferi. Il Consiglio dei ministri della Repubblica sociale si riservava di affinare i dettagli della nuova struttura economica attraverso una serie di singoli atti legislativi. Il Ministro dell'Economia corporativa Angelo Tarchi si era occupato di affinare la legge sulla socializzazione con il ministro delle Finanze Pellegrini ed il ministro della Giustizia Pisenti, esaminando lo schema di legge con Mussolini il 10 febbraio 1944.
    Al termine del colloquio Tarchi riporta le parole di un duce entusiasta:
    «egli mi disse che lo schema realizzava il sogno che dal 1919 aveva inutilmente cercato di tradurre in realtà».
    Non si erano, tuttavia, fatti i conti con le esigenze belliche tedesche: le spoliazioni naziste resero ben presto chiaro come una pace civile all’insegna della socializzazione fosse impossibile, come dimostrarono ben presto gli scioperi del marzo 1944.

      


Giornali e Riviste

Impossibilitate ormai a dominare i fatti, le autorità e le istituzioni della Repubblica sociale italiana trovarono una valvola di sfogo nelle parole e nella propaganda. La proliferazione di giornali e riviste nei 600 giorni di Salò ebbe diversi elementi comuni. Inanzitutto risultava praticamente comprendere le ragioni degli avversari, dei partigiani - definiti “ribelli” dalla maggior parte delle testate giornalistiche -, dato che la Rsi realizzava tutto ciò che era nel pensiero risorgimentale: una repubblica, quella sociale, nata dalla «ribellione contro il tradimento e contro la rinuncia», che ha il dovere di scontrarsi contro chi delinque contro la patria immaginata dall’«Apostolo» Mazzini. L’ordine del giorno Grandi e l’armistizio rappresentarono, per la stampa e all’interno del partito, i momenti cruciali nella caduta del fascismo e del nazionalsocialismo, le solo ideologie in grado di separare la “civiltà” dalle barbarie”. Fiumi di parole che sembrano recuperare uno dei pilastri dell’identità americana, ovvero quel mito dell’accerchiamento da parte dei selvaggi o di non meglio precisate minacce provenienti dall’esterno, sul quale si alimentarono – e si alimentano tutt’ora – le più disparate teorie del complotto: il mito della congiura giudaica per esempio, che la stampa della Rsi rende palese attraverso la pubblicazione reiterata dei Protocolli dei Savi di Sion.

La proliferazione di testate giornalistiche e riviste venne solo parzialmente fermata grazie all’importante impulso del segretario del Partito fascista repubblicano Pavolini, il quale incominciò a troncare l'appello del fascismo moderato per una stampa più libera. Il suo braccio fu il ministro della Cultura popolare Mezzasoma, il quale, in un rapporto del 21 febbraio 1944 ai direttori dei quotidiani indicò in maniera chiara i due temi principali su cui, da quel momento, la stampa avrebbe dovuto focalizzarsi, ovvero la «socializzazione» e la «guerra». Mezzasoma, denunciando lo «spettacolo pietoso dell'indifferenza, della mancanza di equilibrio e dell'irresponsabilità» da parte della stampa fascista, inasprì ulteriormente la censura preventiva.

Uno dei temi di più sicuro impatto sul pubblico è quello che, di città in città, di monumento in monumento, fotografa per l'orrore, il senso di contrapposizione e lo spirito di vendetta degli italiani tutti, civili e militari, i devastanti esiti dei bombardamenti alleati sulle città italiane. Questo costante richiamo alla violenza nemica sui simboli della cultura e della religione nazionale rappresenta uno dei principali cavalli di battaglia della propaganda della Rsi e trova costante attenzione in riviste e giornali.

La carta stampata fu inoltre complice nel promuovere la differenziazione tra il tedesco, abituato a eseguire ordini con la brutalità e la meccanicità di un robot, e l'italiano, da sempre ispirato dalla sua innata umanità. Il messaggio che si voleva lanciare era che il popolo italiano non aveva avuto nulla a che fare sia con Mussolini e soprattutto con le sue politiche razziali: ancora meno si era avuto a che fare con lo sterminio degli ebrei da parte nazista, che gli italiani cercarono in tutti i modi di bloccare. I tedeschi diventarono così una «grande risorsa morale»  da utilizzare in maniera strumentale. Giornali di tutti gli orientamenti politici condivisero questa narrazione fortemente edulcorata, innestando nel discorso pubblico questa visione totalmente distorta della realtà. 

Riferimenti 
Focardi, Filippo, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013

Isnenghi, Mario, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Torino, Einaudi, 1979

 

La vita italiana. Approfondimento

Per la sua nuova avventura politica, essenziale per trattare con i tedeschi da una posizione - sia materiale che morale - di non completa inferiorità , Mussolini subì pressioni sia dalla "vecchia guardia" che da coloro che aspettavano con ansia "nuovi uomini", per non parlare dei tedeschi stessi. Giovanni Preziosi e Roberto Farinacci, i quali si erano avvicinati a Hitler per sostituire il duce, persero presto consensi sia davanti al duce che di fronte alle massime autorità del Reich. Il primo in particolare era fautore di una violenza indiscriminata in tutto il paese contro sospetti nemici, in particolare comunisti ed ebrei , la cui liquidazione, per Preziosi, era il compito principale della Rsi . «Il più tenace nemico degli ebrei in Italia»  influenzò enormemente tutta la politica antisemitica della Rsi, nonostante ottenne solo nel marzo 1944 il suo primo incarico ufficiale, ovvero la direzione dell’Ispettorato generale per la razza. 

La capacità di Preziosi di imporsi nelle politiche repubblichine trovò affermazione già nella stesura del Manifesto di Verona. Se il sesto punto affermava che la religione di stato era quella «cattolica apostolica romana», il punto sette si dimostrava decisamente poco cristiano, dato che si riaffermava con forza l’antisemitismo introdotto con la legislazione del 1938. Per lo storico britannico Frederick William Deakin era probabile che questo punto venne inserito su indicazione di Preziosi : ciononostante tale affermazione non rimase solo sulla carta. Ogni persona appartenente «a nazionalità nemica», in cui erano compresi gli ebrei, erano destinati ai campi di concentramento.

Nei seicento giorni di Salò il fascismo repubblicano, con la complicità dell’occupante tedesco, fu capace di creare una macchina repressiva che causò la deportazione di più di mezzo milione di militari italiani e decine di migliaia di oppositori politici e di giudei. L’avversione nei confronti di questi ultimi – il cui maggior interprete fu senza dubbio Giovanni Preziosi - fu un tratto identitario del nuovo fascismo, il quale vedeva nelle «congiure giudaiche» la causa dello sfacelo del Paese e della caduta del regime. La congiura ebraica, per Preziosi, era un fardello di cui la Rsi si doveva presto liberare, dato che aveva già colpito il suo governo : il primo passo da compiere avrebbe dovuto essere la “purificazione” del corpo politico portando a processo i "traditori" come Dino Grandi, Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luigi Federzoni e il re.

Riferimenti 
Sarfatti, Margherita, La Repubblica sociale italiana a Desenzano: Giovanni Preziosi e l'Ispettorato generale per la razza, Firenze, Giuntina, 2008

Per approfondire

Bernardini, Jacopo
"Un confuso fermento di idee”: politica, amministrazione e costituzione nell’ultimo fascismo (1943-1946), tesi di laurea magistrale, Torino, Università degli studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2019/2020, Corso di laurea in Scienze storiche, relatore A. Chiavistelli

Sabatino, Adriana Francesca
Manifesti di guerra: la propaganda bellica della Repubblica di Salò, (1943 -1945), tesi di laurea, Torino, Università degli studi, Facoltà di Scienze della formazione, a.a. 1998/1999, Corso di laurea in Materie letterarie