Brian Eno e l'Ambient music

airport

Prima di parlare specificatamente del disco Ambient 1: Music for airports, è bene accennare all’artista che, nel 1978, diede alle stampe uno dei lavori più seminali e fondamentali della musica a livello planetario. Dunque, il curriculum di Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno (1948), o più brevemente Brian Eno, è così vasto che di certo un articolo come questo non potrà renderne giustizia. Ci occuperemo qui dei lavori in chiave ambientale, tralasciando le sue infinite collaborazioni e dischi solisti. La sua carriera solista, tra sperimentazione ambient e avanguardia, le collaborazioni con i suoi amici di sempre David Byrne e Robert Fripp, la geniale produzione che sta dietro capolavori come Heroes di David Bowie, Remain in light dei Talking Heads o Joshua Tree degli U2 lo hanno proiettato nell’Olimpo della musica del ‘900, vera e propria pietra miliare di un percorso artistico cominciato negli anni ‘70 con la musica non solo rock e che ancora oggi continua. I suoi esordi, tuttavia, lo annoverano come membro di una delle band più importanti del ventennio ‘70-’80, i Roxy Music, fondatori del genere definito Glam (grande accuratezza nell’abbigliamento, look molto curato, vistoso e colorato: questo movimento, che ebbe estimatori quasi del tutto confinati in Gran Bretagna, fu condiviso per un certo periodo anche da David Bowie o da Marc Bolan, considerato oggi il fondatore del glam-rock). Nel 1975, dopo aver abbandonato i Roxy Music, i palchi e la stampa e le raffinatezze musicali glam, Eno entrò in sala di registrazione per scoprirne le potenzialità acustiche e per aprire il capitolo nuovo e soprattutto sperimentale della sua carriera artistica. Il synth, nuovo “oggetto” elettronico apparso negli anni ‘70, costituiva uno strumento dalle potenziali ed infinite combinazioni, senza possedere una sua storia ed un metodo tramandato da secoli come il pianoforte. In questa luce, le soluzioni artistiche ed attuative del synth costituivano un modo, anche rivoluzionario, per esplorare da zero nuovi mondi: con Another green world (1975) la musica si muove su di un registro quasi del tutto senza testo, con chitarre che non suonano come chitarre. Le tracce sono appunti di colore, piccoli tasselli cristallini che brillano di luce propria e che uniti formano un meraviglioso quadro: musica che non ha eguali, connubio perfetto fra strumenti classici ed elettronici. L’estrema manipolazione in studio permette a Eno di trasformare la musica così come qualsiasi artista non artista potrebbe fare. È il preludio della Ambient music e lo studio di registrazione il suo principale strumento di manipolazione. Nello stesso anno uscirono Evening star (1975) e Discreet music (1975): il primo disco, in collaborazione con il maestro Robert Fripp, si snoda nella prima parte lungo una serie di dolci episodi ambientali brevi ed efficaci, mentre nella seconda il suono vira verso drones (note estese e ripetute) con lunghi suoni distorti di chitarra trattata dagli oscillatori di Eno; nel secondo lavoro, l’artista britannico si rifà decisamente all’ultima produzione di avanguardia di Erik Satie e al concetto di “musica da arredamento”, secondo cui non è importante cosa si usa o cosa si suona, ma importante è l’emozione. Nella introduzione pubblicata all’interno della copertina del disco, Eno scrive, a proposito della “musica generativa”, che contrassegna quasi tutto Discreet music: “Dal momento che ho sempre preferito concepire piani, piuttosto che eseguirli, ho gravitato alla volta di situazioni e sistemi che, una volta divenuti operativi, potessero creare musica con interventi minimi o addirittura senza interventi da parte mia. Cioè, io tendo al ruolo di programmatore e pianificatore e in seguito a quello di ascoltatore dei risultati”. La teoria secondo cui la musica deve diventare patrimonio non solo più di compositori ed esecutori, ma anche di non musicisti e geniali incompetenti, manipolatori di nastri, synth, riporta in sé l’idea della musica svuotata di sé e utilizzata solo per diventare parte di un ambiente che assorbe in sé rumori e atmosfere e non ha bisogno di un ascolto particolarmente accurato, essendo ormai ridotto a mero sottofondo. Così, nel 1978, uscì Ambient 1: Music for airports, primo disco di una lunga serie, vero trattato di musicologia, suggello in ambito extrascolto del concetto tradizionale di ascolto e di nascita di un nuovo genere di colonna sonora, studiata per accompagnare spazi e non immagini. L’ambiente prescelto fu l’aeroporto, crocevia internazionale, punto d’arrivo e di partenza, luogo di incontri e di separazioni, di attese e di tensioni. L’ispirazione per la nascita di questo disco avvenne durante lunghe attese nell’aeroporto tedesco di Colonia e per la musica deprimente che veniva trasmessa dagli altoparlanti: affascinato, in un certo senso, da un non luogo dove nessuno è destinato a restare ma solo a transitare, Eno scrisse quattro composizioni per alleviare lo stress di chi si trovava ad attendere in un posto di passaggio. L’album venne addirittura trasmesso in loop continuo all’aeroporto LaGuardia, a New York… Il suono dell’intero cd tende ad avvolgere l’ascoltatore nella atmosfera di tensione ed ansietà tipica dei luoghi affollati, come un terminal aeroportuale. Le quattro sezioni senza titolo che compongono il lavoro si distinguono per le voci filtrate, manipolate al sintetizzatore e non offrono alcun punto di riferimento se non quello di uniformare le diverse percezioni del tempo con rilassanti note allungate che dispongono l’ascoltatore ad uno stato di tranquillità, in netto contrasto con le febbrili attività che contraddistinguono un aeroporto. Secondo Eno: “Una delle cose che la musica può fare è distorcere la percezione del tempo”, e Music for airports ne è la dimostrazione più corretta e puntuale: la musica spesso non supera le cento battute al minuto e risulta totalmente priva di parti ritmiche. La scultura iniziale offre per oltre 17 minuti le note ripetute al pianoforte di un gigantesco Robert Wyatt in un adagio rallentato, contrappuntato da alchimie elettroniche eteree e in pura estasi trascendentale. A proposito di questo brano, Eno spiegò in una conferenza a San Francisco nel 1996 come è stato concepito e montato in studio di registrazione: “Una delle note si ripete ogni 23 secondi e mezzo. È, infatti, un lungo anello che corre attorno a una serie di sedie tubolari in alluminio nello studio di Conny Plank. Il ciclo successivo più basso si ripete ogni 25 7/8 secondi … il terzo ogni 29 15/16 secondi … ed è improbabile che ritorni di nuovo in sincronia. Quindi questo è un pezzo che si muove nel tempo. L’esperienza del pezzo è un momento nel tempo … Gli elementi di base in quel particolare pezzo non cambiano mai. Rimangono gli stessi. Ma il pezzo sembra avere un sacco di varietà”. Il secondo brano è costruito su sovrapposizioni di un moderno canto gregoriano, ma con voci femminili e sintetizzatori. I turbinii angelici e dark del synth virano decisamente verso un umore intimo e profondo, mentre le tre voci femminili svaniscono e si innalzano ogni volta, conducendo l’ascoltatore verso disperse, avvolgenti, oscure sonorità. Nel terzo brano ritorna il pianoforte, che conduce il filo del percorso sin dall’inizio e l’atmosfera si fa subito malinconica, con un forte senso di solitudine, le voci fluttuanti delle tre donne sono esattamente le stesse presenti nel brano precedente, ma qui la differenza è una certa solennità che pervade l’intera struttura e una atmosfera pastorale che si fa profonda e mesta. Il quarto brano, eseguito solo coi synth, le cui dissolvenze fluttuanti hanno spazi e tempi più brevi rispetto a qualsiasi altra traccia dell’album, ci accompagna verso un finale quasi incompiuto, là dove la cupezza si sposa con la calda temperatura dell’infinito. Così è per questa monumentale opera: un viaggio infinito in una realtà extraterrena in grado di offrire ad ogni ascolto qualcosa di nuovo e di diverso: dietro le lente fluttuazioni, la calma ossessiva, i paesaggi ipnotici, si intuisce l’attesa per un colpo di scena che potrebbe non arrivare ma che ad ogni nuovo ascolto potrebbe sopraggiungere…

Di Renzo Bacchini

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