Genesis, ricordando con rock

Marinella Venegoni

Il famoso gruppo britannico Genesis iniziò la sua carriera musicale nel rock progressivo a metà degli anni '60. Nel 1969 uscì il primo disco, “From Genesis to revelation”, cui seguirono “Trespass” (1970), “Nursery Cryme” (1971), “Foxtrot” (1972), “Selling England by the pound” (1973) e “The lamb lies down on Broadway” (1974). Sino a questo fondamentale capitolo artistico, i Genesis furono guidati dalla carismatica figura di Peter Gabriel, frontman dalle enormi abilità teatrali e vocali, in grado di produrre suggestioni di mondi leggendari e personaggi paradossali, vestendo ogni volta maschere e travestimenti diversi. Dal 1976 i Genesis, rimasti orfani di Peter Gabriel, intrapresero una svolta più commerciale costellata di successi internazionali: nuova voce e leader della band fu Phil Collins, che sarebbe diventato presto una star planetaria, nonché produttore pluripremiato e plurivenduto. Ricordiamo qui i capitoli fondamentali della storia dei nuovi Genesis: “A Trick Of The Tail” (1976), “Wind And Wuthering” (1977), “Abacab” (1981), “We can dance” (1991), fino al 1999, anno dello scioglimento momentaneo del gruppo, da cui era già uscito Phil Collins. Negli anni successivi, i Genesis tornarono a riunirsi, a tenere concerti in tutto il mondo con formazioni rimaneggiate e mutate nel tempo. In questo articolo, Marinella Venegoni ci parla di uno dei tanti concerti tenuti dai Genesis e del suo leader Phil Collins, vera anima della band.

Genesis, ricordando con rock

Il rock teatrale di Prince visto a Stoccolma nelle scorse settimane (il miglior concerto degli ultimi anni, presto a Milano), tra i tanti debiti che si riconosce senza pudore ne ha certamente uno anche con i Genesis, che l'altra sera hanno concluso al San Siro di Milano, davanti a quasi quarantamila spettatori umidi di pioggia, la loro breve incursione italiana. I Genesis sono uno dei capitoli della storia del rock, ma se Prince gli rende un tributo, è di sicuro rivolto ai primi Anni Settanta, quando erano loro il rock teatrale e Peter Gabriel scivolava sulla scena inquieto e dipinto in un mare di luci psichedeliche. I Genesis guidati da Phil Collins, dal bassista Mike Rutheford e dal tastierista Tony Banks, sono una rockband storica; i tre si lasciano e si riprendono seguendo ognuno i propri progetti, e quando stanno insieme fanno concerti e dischi perfetti, in linea con i tempi, professionali, abili, con gran senso dello spettacolo; il bagaglio d'esperienza di persone intelligenti che stanno in un business da 19 anni gioca una parte fondamentale. Certamente, però, il mito della storia continua ad esser uno degli ingredienti di richiamo nell'accorrere di tanta gente al loro concerti. Sembra quasi simbolico che proprio i Genesis abbiano aperto in Italia la stagione dei megaraduni all'aperto, un ritorno prima della guerra dell'autoriduzione, in un clima anche un po' di rimpatriata o di rito, dove l'unica inquietudine è stata l'appello dell'impresario David Zard, all'inizio di concerto, a “Ziggy '72”, una quindicenne scappata da casa (“Tuo padre ti aspetta alla fine del concerto all'uscita 17.) e i soliti 60 malori per ressa e calca sotto il palco. I Genesis di questi Anni Ottanta si adeguano al clima corrente: lunghe infilate dei loro ultimi dischi, soprattutto “Invisible touch” (si apre con Mama dell'83, si indietreggia ad Abacab dell'81, ma poi si torna subito al nuovo Domino), ma forte atmosfera di nostalgia ridipinta a nuovo: fumo iniziale che annebbia completamente l'enorme palco; grandi schermi al lati; luci multicolori e mobili assai suggestive e psichedeliche come contorno; e come contenuti, lunghe suites strumentali; poderoso ed eccellente uso della batterla di Chester Thompson (c'è pure un duetto trascinante, verso la fine, con Los Endos fra lui e Phil Collins); assoli inquieti del chitarrista Daryl Stuermer. Sarebbe soltanto un classico, bel concerto rock, di quelli canonici: e infatti si sprecano dal pubblico gli urli, i cori, gli incitamenti e gli entusiasmi. A tirar le fila della realtà e della musica ci pensa Phil Collins, che domina la serata a piccoli colpi di ironia furbesca, leggendo platealmente su un foglio gli interventi in italiano (vecchio trucco dei concerti Genesis, ripetuto in tutte le lingue ospiti), recitati come se parlasse a dei bambini, per infilarsi subito dopo nell'interpretazione del brani con una voce che pare vieppiù arricchita di sfumature e di intensità, stretta in un rigore formale ineccepibile: Sting nella sua vita deve averlo ascoltato davvero molto. La parte finale, un medley di musiche soul e dei Beatles che fa scattare tutti a ballare, rafforza il gioco del “Come eravamo”» e perfino l'ex ministro De Michelis, dalla tribuna d'onore, vien preso da entusiasmo. C'è anche Lori Del Santo, l'immancabile, a rappresentare la famiglia del rock che non muore mai.

Marinella Venegoni - «La Stampa», 21 maggio 1987

Di Renzo Bacchini

Rielaborazione grafica di Roberta Di Martino

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