Joan Baez. Star senza tramonto

Marinella_Venegoni

Joan Baez non è solo una cantautrice. È un’istituzione della musica americana e dell’attivismo politico, una donna straordinaria, ancor prima che grande artista, capace di cambiare il mondo nel suo piccolo semplicemente con una chitarra in mano e con la forza dei fatti, che va sempre oltre le parole. Diventata un simbolo del pacifismo e della lotta per i diritti civili in un’epoca storica estremamente delicata, raggiunse l’apice della sua notorietà con l’esibizione al festival di Woodstock nel 1969. Ha annunciato la fine della sua carriera nel 2019, ritirandosi dalle scene musicali definitivamente. Marinella Venegoni descrive con sentimento e passione, in questo articolo, un concerto dell’artista americana del lontano 1984 a Genova. Ci si potrebbe domandare – e l’articolo poneva già in evidenza questo aspetto – cosa ne è della musica di protesta oggi, a 40 anni di distanza dallo scritto della Venegoni: in un mondo dove i diritti più semplici continuano ad essere negati e violati e dove la violenza e la miseria sono consuetudini e dove, infine, sono venute a mancare voci come quella di Joan Baez e parole di protesta pesanti come pietre.
 

Joan Baez. Star senza tramonto

Questo è il mio primo concerto in Italia dopo 14 anni. Grazie”. Joan Baez, in gonna nera e camicetta beige di raso, saluta i seimila che sono venuti a sentirla al Palasport di Genova e se ne stanno lì dubbiosi ad aspettare un segnale. Sarà cambiata? E come? Ma dopo tanto tempo, Joan Baez è ancora identica a se stessa, al suo mito degli Anni Sessanta. Sola con la sua chitarra su un palcoscenico inondato di fiori, esordisce con una bella ballata folk, «Me and Bobby me Guire» e poi subito entra nel mondo caldo della canzone di denuncia. “Sono stata in Argentina, ho parlato a lungo con le madri dei desaparecidos. Dedico loro questa canzone”. E attacca, tra un uragano di applausi, gli accordi noti di Don't cry for me Argentina. Insiste ancora a recuperare nella memoria la sua immagine di cantante della protesta, dedicando “ai prigionieri politici di ogni parte del mondo, dal Cile alla Siberia, dal Vietnam all'Uruguay” (e qui c'è un applauso generale) una delle canzoni che aveva scritto per “due tra i più noti prigionieri politici, Sacco e Vanzetti”. Lo stile non è cambiato, gli accordi della chitarra neppure. La voce è più dolce, più piacevole; il pubblico, cancellata la paura inconscia della delusione, si lascia andare felice, canta in coro e applaude. Riconosce il proprio passato, ritrova un'identità e se ne mostra soddisfatto, appagato. I figli del fiori, gli hippies, la generazione della protesta insomma e dell'utopia, ieri sera forse non stavano tutti lì, dentro il cemento marinaro del Palasport a sentire Joan Baez che tornava a cantare in Italia. Ma certo ce n’era  una buona fetta, con qualche barba magari grigia e molti desideri rimasti nella memoria. Quella signora sul palco, semplice e garbata, tutta sola con la sua chitarra come usava vent'anni fa, è stata la voce della protesta, ha cantato (e canta) di Sacco e Vanzetti, degli uomini che non imparano la pace, del ghetti del mondo dove la vita è senza speranze. Con Bob Dylan, era diventata un simbolo, non aveva né tempo né età. E ora che entrambi hanno deciso di percorrere cantando l'Europa, viene da chiedersi se lo abbiano deciso per business, per tornare giovani, oppure per misurare la sensibilità del Vecchio Continente, magari con l'idea che almeno qui la filosofia elettronica non abbia fatto piazza pulita di temi, suggestioni, melodie segnate per sempre con il marchio di un'epoca turbolenta. Che cosa ha a che fare, questa signora americana, con quel passato che tutti oggi si preoccupano di coprire, di dimenticare? Lei proclama e dichiara di rimanergli saldamente attaccata, in realtà la sua musica ricorda ancora molto lo stile folk delle canzoni degli Anni Sessanta, quando pochi giri armonici alla chitarra bastavano per ogni ballata. Quello che contava erano le sue parole, e soprattutto la sua voce, quella purissima tensione lirica che raccontava la vita con un misticismo quasi angelico. Ieri Joan Baez è apparsa ancora una star, magari con un velo di malinconia. Una piacevole interprete di easy listening, che è poi il modo un po' spregiativo con cui i rocchettari etichettano la musica leggera e dev'essere stato come un museo per i ventenni corsi a Genova ad ascoltare dal vivo un «mostro» della storia della musica giovane. Joan Baez oggi ha 43 anni, la stessa età almeno del pubblico che segue questa tournée un po' misteriosa e nostalgica. Molte ragioni di protestare, oggi, rispetto a quando lei era la diva della contestazione, non sono venute meno. Ma gli anni hanno buttato su tutto uno strato incancellabile di polvere. Viene in mente un suo concerto al Vigorelli, nel 1970, registrato in un disco che ha il sapore d'un documento d' epoca. C'erano stati incidenti, proteste, era intervenuto il servizio d'ordine. Lei fermava ogni tanto un accordo della chitarra per zittire gli slogan contro “Nixon boia” che coprivano la musica, e parlava in un buon italiano; a un certo punto diceva decisa: «No, per piacere, i carabinieri no”, si indovinavano tumulti. Oggi la signora della protesta si amministra saggiamente, è andata a scuola di canto perché il tempo conservi la sua bellissima voce. Agli italiani regala una sua versione de La canzone di Marinella, ed è un affondare dolce nella memoria senza tempo delle ballate. Il suo cachet è di trentamila dollari a serata; forse sono tanti per il business della canzone, o forse sono un prezzo che va pagato soprattutto alla sua storia nel piccolo mondo della musica giovanile. Francesco Sanavio, l'impresario che l'ha portata, aspettava “certo molta più gente”. Fuori del Palasport era arrivato il folklore capellone di tanto tempo fa, c'erano gli spinelli, gli antimilitaristi, i guru indiani malati d'esotismo; ma dentro, nelle scalinate e nella platea, non s'andava oltre i 6-7 mila. Gli anni passano, e le memorie sbiadiscono anche per la canzone.

Marinella Venegoni - «La Stampa», 11 maggio 1984

Di Renzo Bacchini

Rielaborazione grafica di Roberta Di Martino

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