L'anima mistica dei Beatles
Il talento, il carisma e l’estro di George Harrison, a torto considerato il “terzo” Beatles, e sebbene schiacciato fra le due figure preminenti della leggendaria band di Liverpool (Lennon & McCartney), divennero sempre più evidenti negli ultimi anni della vita del gruppo, con la produzione di alcuni brani solisti di rara bellezza. Alla base della metamorfosi del sound della band contribuì in modo determinante l’avvicinamento di Harrison alla cultura e alla religione indiana, con il conseguente uso del sitar, di cui l’amico Ravi Shankar fu interprete di massimo spessore. Nonostante sia scomparso a soli 58 anni, ha lasciato una notevole produzione di brani che lo pone al vertice, fra i grandi compositori del ‘900, della musica di sempre. George Harrison è stato cremato e le sue ceneri, raccolte in una scatola di cartone, sono state sparse nel sacro fiume indiano, il Gange, secondo la tradizione induista della quale aveva abbracciato la natura spirituale.. In questo articolo, Marinella Venegoni tratteggia il profilo dell’artista da una angolazione biografica più privata e meno legata alla leggenda dei Fab Four.
L'anima mistica dei Beatles
Era l'opposto di Paul McCartney. Parlava e sorrideva poco, diffidava dello show business e si lasciava catturare nella rete delle interviste solo quando uscivano i suoi ormai avari dischi. Però in quelle occasioni era preso dal gusto della conversazione e gl'incontri potevano durare ore. Aveva conservato l'accento aspro di Liverpool, rivelava buone letture e guizzi di spiritualità venata di pessimismo: “Ho sperimentato qualunque cosa, incontrato tanta gente ed è ormai difficile incuriosirmi. Mi confondo quando mi guardo intorno e vedo tutti correre: come dice Bob Dylan, ‘più che a vivere sono impegnati a morire’. Ma vedo che nessuno cerca davvero di capire perché si muore e cosa succede quando si muore: per me questa è l'unica cosa importante. E io voglio essere illuminato, autorealizzarmi come Buddha, tener sempre presente chi sono, da dove vengo e dove vado. Tutto il resto diventa secondario”. Coltivava anche una forte propensione alla dietrologia: nella sua vita coi Beatles, del resto, aveva avuto tempo e buoni motivi per appassionarsene. Perché George Harrison dentro all' icona dei Fab Four si era sempre sentito compresso, sacrificato, frustrato dalla gloria dei sempiterni Lennon-McCartney. Per quanto passati su un incredibile treno in corsa, i Sessanta furono anni da lasciarsi dietro senza nostalgia, per il chitarrista di talento tanto silenzioso quanto sarcastico, non bello, non glamour, con poca famigliarità con i salotti. In realtà, perduranti i Beatles qualche piccola soddisfazione George era anche riuscito a prendersela: aveva piazzato negli album alcuni bei pezzi come While my guitar gently weeps e Here comes the sun, mentre Frank Sinatra aveva definito la sua Something uno dei testi più intensi che avesse mai cantato. Nel '65 poi, era stato per una volta lui a dettare legge ai Fab Four, quando sul set di Help aveva imbracciato il sitar che gli insegnava Ravi Shankar, finendo per aprire anche ai compagni la strada dell'interesse per l'India che sarebbe diventate di gran moda proprio grazie a lui. Dietro la passione esotica coltivata dapprima in sordina - e poi sfociata artisticamente nel famosissimo Concerto per il Bangladesh del ‘71 con Dylan e Clapton - c'era Patrie Boyd, l'ex modella che aveva folgorato Harrison sul set del primo film dei Beatles, “Tutti per uno” per la sua somiglianza con Brigitte Bardot. Era stata lei, diventata sua compagna di vita, a insinuare nel chitarrista la curiosità per lo strumento indiano. Si sposarono nel '66, ma anche con lei l'uomo non fu troppo fortunato: a metà dei ‘70 Pattie s'innamorò, contraccambiata, di Eric Clapton che frequentava perché era il miglior amico del marito. La rottura fra i due gentleman non avvenne mai: fu proprio George a fare da testimone alle nozze di Showland con la ex moglie, nel ‘79; lui era ormai sposo felice di Olivia Arias, che lo ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni e gli aveva dato, nel ‘78, l'unico figlio Dhali. L'energia che George aveva immagazzinato negli anni dei Beatles esplose compiutamente subito dopo il traumatico divorzio dei Fab Four, sancito con la carta bollata solo il 31 dicembre 1970. Proprio quell'anno, Harrison si prese una bella rivincita nei confronti dei suoi ex compagni, finendo per primo in hit parade da solista con la dolcissima My sweet Lord. Però anche quel sospirato successo fu funestato da un guaio: il brano fu denunciato da un autore che sosteneva di esser stato copiato, e solo dopo un infinito processo George fu assolto per “plagio inconsapevole”. Si rivelò presto il più eclettico fra i suoi compagni, l'unico che abbia tentato altre strade fuori dalla musica. Nel ‘78 creò una sua casa di produzione cinematografica, la Handmade, che produsse film di successo come «Life of Brian» dei Monthy Pythons. Ma quella sorta di maledizione che perseguitava ogni sua attività non gli permise di onorare i debiti con il Credit Lyonnais, dopo che alcuni suoi film erano finiti in mano alla Carmen e poi Cos, la Handmade in grave crisi economica fu venduta. Così, George si rituffò nella musica, producendo nell'87 il suo album più fresco, pieno di belle canzoni intrise di allegra nostalgia beatlesiana: s’intitolava Cloud Nine e fra i brani ce n'era uno che ricordava Fab! Long Time Ago When We Were Fab (Tanto tempo fa quando eravamo favolosi). Più tardi, venne l'avventura con i Trayeling Wilburys, il supergruppo con Bob Dylan e Boy Orbison che fruttò un paio di dischi bellissimi. Con la sua vis polemica, è stato l'unico in tanti anni a raccontare fuori dai denti perché la favola dei Beatles fosse finita. Fu in un giorno di giugno all'Hotel Mayfair di Londra, 9 anni fa; dopo averci intrattenuti raccontandoci tutti i risvolti dell'affare Marcinkus che sapeva a memoria, si lasciò finalmente andare: “Voi ne sapete più di me, leggete i libri che scrivono la storia e sono pieni di bugie - sbottò -. I Beatles sono finiti per colpa delle donne. John aveva Yoko, e Paul aveva Linda. Abbiamo chiuso perché siamo diventati sei, ma soprattutto c'era qualcuno nella vita di John che ogni giorno gli diceva: "potresti far meglio fuori dai Beatles". Ognuno di noi in fondo la pensava così; era una nave che affondava e tutti volevano scappare”. George è stato il più parco dei Fab Four in materia di droga: non ne aveva più toccata da quando a metà del Sessanta gliene avevano trovato una carretta in casa. Al Mayfar, quel giorno, ci confessò anche che aveva smesso sia di bere che di fumare le Marlboro rosse che gli avevano fatto lunga compagnia: “Poco tempo fa ho annusato un bicchiere di vino bianco, mi ha fatto lo stesso effetto dell'aceto - se la rideva -. Nella mia vita passata ho bevuto troppo e fumato troppo, in questa mi voglio rigenerare”. Quattro anni dopo gli fu diagnosticato il cancro alla gola. Cominciò quel doloroso calvario che lo ha portato alla fine, privandoci del suo talento caustico e di ancora tante storie da raccontare e canzoni da cantare. Una metastasi al polmone e una al cervello cominciarono a trascinarlo in un pellegrinaggio per i centri specializzati di mezzo mondo, fino al trasferimento in una villa in Svizzera l'anno scorso, dove si era stabilito. Un destino cieco lo ha fatto sempre combattere; ogni volta ricominciava con rabbia rinnovata, con lo stesso mordente e la stessa amarezza che di recente lo ha spinto a definire i Fab Four “gli Spice Boys dell'epoca”. Harrison doveva essere il secondo Beatle a morire di morte violenta dopo John Lennon, ma quando, la vigilia di Capodanno del 2000, uno squilibrato di Liverpool s'infilò nella sua bella mansion dell'Oxfordshire di notte per coglierlo nei sonno, fu la moglie Olivia a mettere K.O. con un paralume l'aspirante assassino, non prima però che questi riuscisse ad accoltellarlo. A quelli che si felicitavano per lo scampato pericolo disse soltanto: “La mia ora non è ancora venuta”
Marinella Venegoni - «La Stampa», 1° dicembre 2001
Di Renzo Bacchini
Rielaborazione grafica di Roberta Di Martino