Nick Drake
Ma la storia di qualsiasi “star”, fortunatamente, non è diversa dalla storia dell’uomo di strada. Cambiano semplicemente i “valori” attribuiti ai suoi gesti, ma il ”sistema” della vita è lo stesso. Nel bene e nel male. Soprattutto di fronte alla Morte. Così Jimi Hendrix potrà morire in santa pace pagando il tributo all’epoca in cui ha vissuto e diventare il Mito completato. Così Janis Joplin e Jim Morrison; così Sid Vicious e Ian Curtis; così Charlie Parker e Bix Baiderbecke. Dovunque i Miti sono sigillati, in vetrina, per consentire al sistema di ricomporsi e prepararne di nuovi.
(Luca Ferrari, Un’anima senza impronte, Gammalibri, 1986)
La storia di Nick Drake può essere così riassunta: autore di canzoni di disarmante bellezza intrise di emozioni uniche e irripetibili che hanno cambiato il volto della musica d’autore. Il tutto, concentrato in quattro anni di silenziosa attività e di decenni di quasi totale oblio. Un artista tardivamente scoperto e consacrato nell’Olimpo della musica con irresponsabile ritardo… Con una semplice metafora, Drake è stata una meteora luminosa che brucia subito e che è difficile notare se non si scruta attentamente il cielo. Oppure: un altro martire scomparso nel nome della propria arte che, come spesso accade, ha ottenuto il successo dopo molti anni di distanza dalla propria morte. Nato a Yangon (Birmania) nel giungo del 1948 ma trasferitosi ben presto con la famiglia a Tanworth-in-Arden (Inghilterra), bucolico e antico villaggio a sud di Birmingham, immerso nel silenzio e nei boschi, trascorre gli anni della scuola spensieratamente, praticando vari sport, fra cui rugby e atletica leggera con un discreto successo, essendo dotato di una certa avvenenza fisica, figura snella e look ricercato. Il rapporto tenero con i genitori e la sorella durerà tutta la vita, ma è la madre che gli trasmette l’amore per la musica: al liceo impara a suonare il sassofono, il clarinetto, il pianoforte, sebbene il suo interesse è ben presto orientato alla chitarra acustica, cui dedica molte ore di studio. Sono anni in cui il giovanissimo Drake affina i suoi gusti musicali, con tanto folk (Martin Carthy, Davey Graham, Donovan), blues (Odetta), jazz (Miles Davis), unitamente alle nuove leve del rock (Rolling Stones e Beatles). Il desiderio di libertà racchiuso in quei vinili lo porta ben presto a organizzare con amici i primi viaggi, con fughe clandestine a Londra, Belgio, Germania, Francia e Marocco, dove sperimenta per la prima volta l’Lsd. La musica comincia a bussare prepotentemente alle porte, grazie anche al suo compagno di scuola Robert Kirby, che sarà l’arrangiatore dei suoi primi due dischi: nei primi mesi del 1968 ha l’opportunità per farsi ascoltare in occasione di un concerto alla celebre Round House di Londra. Fra il pubblico c’è Ashley Hutchings, bassista dei Fairport Convention, band considerata fra le giovani promesse del folk britannico. Fulminato dalla voce e dalla tecnica artistica di Drake, Ashley si precipita letteralmente da Joe Boyd, manager della Island Record, parlandogli del promettente artista. Una manciata di canzoni, su nastro, convincono a mettere sotto contratto discografico il giovane artista. Così, quasi inaspettatamente, si avvera per Drake un sogno a lungo covato: la registrazione del primo disco, Five Leaves Left (titolo ispirato dall'avviso che riportavano le cartine da tabacco Rizla quando ne restavano solamente cinque: “five leaves left”), la cui registrazione dura quasi un anno, durante il quale abbandona l’università. É il 1969, e mentre a Londra Hendrix impazza a suon di Purple Haze e cominciano a venir fuori i Led Zeppelin, un timidissimo ragazzo di ventuno anni incide insieme a qualche fidato amico di college questo disco, nettamente in contrasto con le tendenze rock-psichedeliche del periodo. L’esordio è sfolgorante perché il giovanissimo artista si muove fra i solchi del disco con una sicurezza e una voce da far invidia ai più navigati cantanti dell’epoca. Le liriche di questo primo vinile sono le stesse che ritroveremo anche negli altri due lavori successivi, nei quali è raccolto tutto il suo mondo: nostalgie, paure esistenziali accompagnate a paesaggi bucolici, solitudine dolorosa ma necessaria. Svetta, fra le dieci canzoni che compongono l’album, Fruit tree, capolavoro assoluto, riassunto e apice della cifra stilistica di Drake, non solo per la chitarra che intarsia riff in apertura o per l’ensemble orchestrale che tocca vertici insuperati di lirismo. Ciò che fa veramente rabbrividire è il messaggio/presagio espresso nel testo: “La fama non è che un albero da frutto molto malato/ non potrà mai fiorire finché il fusto rimarrà sottoterra/ E così gli uomini famosi/ non troveranno mai una strada/ finché il tempo non volerà lontano dal giorno della loro morte". Non è da meno River man, uno dei simboli della malinconia musicale di Drake, dove l’andamento quasi mellifluo e oscillante, apparentemente semplice, immerso in uno scenario nebbioso, riconduce alle suggestioni romantiche dell’uomo del fiume, depositario della conoscenza da cui ci si reca per trovare risposte e rivelazioni sulla vita, che viene rappresentata dallo scorrere del fiume. Three hours parte dagli stessi paesaggi, ma rivela l’estro di Drake alla chitarra, eccellente nel padroneggiare insoliti accordi senza mai cadere in forme di virtuosismo. Giusto segnalare ancora Way to blue e Day is done, due canzoni in cui la malinconia, l’inquietudine di vivere, sottolineati dagli splendidi arrangiamenti per archi scritti e diretti da Robert Kirby, si manifestano come interrogativi senza risposta. Purtroppo, le vendite del disco si rivelano estremamente modeste. Drake, verso la fine del 1969, si esibisce, in un estremo tentativo promozionale, alla Royal Festival Hall, di spalla ai Fairport Convention: nonostante gli applausi, lascia il palco con molto imbarazzo, poiché il pubblico vociante lo indispone e spaventa e la sua patologica timidezza non gli permette di esibirsi su un palco. L’artista vero sta nelle registrazioni in studio, nel lavoro certosino sulle canzoni: le promozioni, i concerti, i cartelloni pubblicitari, le interviste, non lo interessano affatto. Nonostante ciò, la critica si occupa di lui positivamente, quasi osannandolo, e anche alla radio, nella persona del celebre dj John Peel, non sfugge la figura del nuovo personaggio. Ancora nel 1970, alla Queen Elizabeth Hall, si esibisce di spalla ai Fairport Convention: sul palco appare impacciato, quasi incapace di parlare e del tutto privo di quel rapporto che si instaura fra artista e pubblico, tanto che a fine concerto fugge e si rifugia dietro le quinte. E così sarà per gli altri otto concerti, in piccole sale, club di provincia, davanti ad un pubblico rumoroso e disattento, poco interessato alle canzoni di questo sconosciuto antipatico e dall’aria torva. A questo punto, Joe Boyd, che gli è sempre stato al fianco, getta la spugna e si rifiuta di organizzare ulteriori concerti. E’ di questo periodo, pare, una tormentata storia d’amore con la famosa cantante Françoise Hardy, con la quale avrebbe dovuto collaborare per una serie di canzoni, ma i contorni di questa vicenda sono rimasti sempre molto confusi e poco chiari. Nel 1970 esce Bryter Later: Drake ha a disposizione una serie di brani e con questi l’idea di un’opera di ampio respiro, ambizioso e ragionato, in grado di donargli la meritata considerazione. Lo accompagnano nuovamente alcuni membri del gruppo Fairport Convention (Dave Pegg, basso Dave Mattacks, batteria), jazzisti esperti come Ray Warleigh e coriste, ma la grande novità è la presenza dei John Cale, dei Velvet Underground, la cui intesa con Drake è immediata. Il disco è imperdibile, mostra una ulteriore maturità musicale, è più variegato rispetto al precedente e stupisce per la molteplicità di stili ed atmosfere che l’artista padroneggia apparentemente senza sforzo: si tratta di un capolavoro. Bryter Later parte con una breve introduzione strumentale cui segue Hazey Jane II, un brano pop e un testo scioglilingua dagli ammiccamenti commerciali; si prosegue con At the chime of a city clock che, insieme alla successiva One of these things first forma una morbidissima coppia di ballate. Drake non dimentica la sua adorata acustica e con Jazy Jane merletta una suadente ballata folk romantica per archi e discreto accompagnamento ritmico. E subito dopo la strumentale Bryter later, con flauto di matrice folk/pop, ecco Fly, nella quale John Cale con la viola e Drake con la chitarra dialogano accompagnati da un estatico tappeto di clavicembalo. Sbalordisce la purezza del suono e della voce quasi angelica che si muove fra i solchi: è musica per lo spirito, è musica che commuove ma con una tenerezza infinita in cui il dolore è appena sussurrato, accarezzato, cullato fra le braccia delle tavolozza musicale: Ti prego dimmi il tuo secondo nome / gioca per me la tua seconda partita / sono caduto così lontano da qui / per la gente come voi / ho solo bisogno della tua stella per un giorno. Poor boy è la sfida con cui Drake dimostra di saper ormai affrontare qualsiasi forma musicale con disinvoltura: prova lampante, i cori femminili e il sax che fra essi si muove sinuoso. E poi giunge Northern sky, l’apice, il vertice assoluto dell’album dove, ancora una volta, risulta decisivo l’apporto di John Cale, impegnato al piano, celeste ed organo. Ma la parte del leone spetta a Drake: Non mi sono mai sentito così felice ed incantato / non ho mai visto lune, conosciuto il significato del mare / non ho mai tenuto l’emozione nel palmo della mano / o sentito brezze delicate sulla cima degli alberi / a illuminare il mio cielo del Nord. Con tardiva compiacenza, un giornale inglese ha definito questa composizione come la più bella canzone d’amore dei tempi moderni. Conclude l’album la strumentale Sunday e l’ultimo solco ci induce a pensare ancora una volta di aver ascoltato qualcosa di eccezionalmente bello che in qualche modo ha cambiato la nostra vita. Bryter Later compare nei negozi nel novembre del 1970, ma l’accoglienza è molto tiepida e nettamente sotto le aspettative. Eppure, l’album è perfetto in ogni sua parte, arrangiato con rara maestria, ogni musicista ha dato il proprio contributo con competenza e professionalità: il risultato non cambia e Drake ha praticamente perso anche questo treno per il successo e la celebrità, con la conseguente depressione che divorerà la sua breve vita futura. Persino l’amico, amministratore e suo consigliere Joe Boyd lo abbandona per tornare negli Stati Uniti ad occuparsi di colonne sonore (ma lascia una clausola secondo la quale tutti i dischi dell’artista faranno parte del catalogo Island) e sarà per Drake un colpo durissimo da sopportare; perfino l’unica intervista concessa per Sound, nel febbraio del 1971, non servirà a portarlo fuori dalla confusione e dall’abbattimento depressivo in cui si trova. Da questo periodo comincia per Nick Drake il percorso delle visite psichiatriche decise dai genitori e l’uso massiccio di antidepressivi e medicinali che lo porteranno velocemente alla assuefazione. E’ in questa dimensione solitaria che prende forma il progetto di un disco solista in cui lui solo e la sua chitarra siano protagonisti. Dopo aver contattato Jonh Wood, in pochi giorni è in sala di registrazione e in due sole notti nasce Pink Moon (1972), la sua ultima fatica e altro capolavoro. Il disco è spoglio, essenziale, intimo: qui Drake si guarda allo specchio e si racconta con sincerità, forse tentando disperatamente di vincere i dubbi o gli spettri che ormai abitano la sua anima. L’album, intimo e barcollante su di un insondabile abisso, rappresenterà per decenni il punto di partenza per moltitudini di cantanti “noir”. Scompaiono da queste tracce i cieli del Nord, la luna (rosa, che lentamente tramonta in una amara metafora) e i sogni, le foglie, il mare e le brezze che lo percorrono, i sogni e la grazia: come se l’artista fosse ormai fuori dal mondo reale che lo ha rifiutato o non lo ha voluto comprendere e quindi apprezzare. Il suo vero testamento è questo disco immenso, sfacciatamente minimalista, essenziale, percorso da una chitarra, da qualche accenno di pianoforte e dalla sua voce unica. Meno di trenta minuti di musica, che collocano questo lavoro tra i 50 migliori album di tutti i tempi. E’ un disco che non ha tempo, non obbedisce a nessuna legge se non a quella del fuoriclasse Drake, che dipana in ogni solco la sua assoluta maestria tecnica e vocale, intessuta di momenti notturni, crepuscolari e personali. Sono canzoni d’amore malinconiche e tristi che parlano dell’amore e della esistenza, ma lo fanno in punta di piedi, quasi per timore di disturbare o rovinare i delicati equilibri su cui poggia, così evidenziando melodie perfette, una incredibile tecnica chitarristica, un’alta qualità del suono e soprattutto la profonda poesia dei testi. Nonostante la pubblicità e la strana copertina (un dipinto di Michael Trevithik), il disco vende pochissimo e resta relegato negli angoli delle vetrine dei negozi. Lo stesso artista non partecipa alla promozione della sua ultima fatica, ma si ritira nella casa dei genitori a Tanworth, scomparendo letteralmente, dopo aver abbandonato i nastri con le registrazioni del disco sulla scrivania di una segretaria della Island. Non vede nessuno, si richiude in uno stato d’animo di rassegnazione e solitudine: la sua chitarra giace abbandonata in un angolo, ascolta vecchi vinili di Bach fra collassi nervosi e solitari viaggi in auto. Due anni trascorrono così, fino all’epilogo del 25 novembre 1975, quando il corpo senza vita viene trovato dalla madre, nella sua stanza. Non sono mai stati chiariti i motivi della morte, se non con ipotesi che non hanno mai avuto risposte precise e non sono mai state chiarite, forse volutamente: suicidio o errore di dosaggi di antidepressivi? Nick Drake ha messo tutta la vita dentro i suoi dischi, tutta la sua passione e solo con la musica ha cercato di dialogare con il mondo esterno. Probabilmente null’altro lo interessava. Ha costruito un altare alla sua cosmica tristezza ed edificato intorno oscuri presagi e fiabesche atmosfere. Al centro di quel mondo, il suo mondo, sedeva come leader incontrastato e schizofrenicamente splendente. Ma, al di là della musica, o nel nostro mondo, è stato un personaggio schivo, perseguitato dalle luci dello spettacolo, incapace di sporgere il suo sguardo oltre quei bagliori che lo intimorivano. Oppure: la sua musica, ciò che ci ha lasciato in eredità, ha rappresentato in quegli anni un seminale percorso di cui pochi hanno intuito la genialità e bellezza. Probabilmente, il suo tardivo successo e il culto di cui è stato fatto oggetto, lo avrebbero reso felice.
Di Renzo Bacchini