Perché la musica classica

Fotografia di Ramella&Giannese - (c) Teatro Regio Torino

Perché ascoltare musica? Perché fare musica? Perché imparare a suonare uno strumento?

Tante domande, argomento eccessivamente ampio e chiaramente insidioso. Tentiamo ugualmente una risposta, questa volta senza ricorrere alla seduzione della parola o a convinzioni e percezioni personali, facendo invece leva sulle evidenze di studi e numeri.

Con una considerazione di apertura: pochissime persone si concedono ormai la possibilità di ascoltare musica. Sarebbe forse meglio affermare che è difficile che chiunque si conceda del tempo per un puro ascolto (o per un puro silenzio).

Eppure il piacere che si prova nell’ascolto della musica, genericamente intesa, continua ad essere indagato dai ricercatori che si interessano del funzionamento del nostro cervello. Recentemente i neurologi del Montreal Neurological Institute della McGill University, analizzando i processi neuronali di un gruppo di volontari posti al primo ascolto di alcuni brani musicali, hanno focalizzato la loro attenzione su una precisa area cerebrale coinvolta nei meccanismi di ricompensa. Lo scrive la rivista Science, che in un articolo riporta il risultato dello studio sul nucleus accumbens (come noi, andate a guardare su internet quali funzioni presidia): l’effetto dell’ascolto di musica riguarda la nostra sfera emozionale e attiverebbe meccanismi di aspettativa e di anticipazione di uno stimolo desiderabile […]. Nelle persone impegnate nell’ascolto di un brano familiare sarebbe quindi scattato il meccanismo dell’aspettativa, con l’anticipazione mentale dei passaggi maggiormente gradevoli. Ma anche per i brani musicali sconosciuti le aree attivate e la mediazione dopaminergica sarebbero le stesse dei brani già noti […]. Nel corso dei test, quanto più il pezzo era gratificante quanto più intensa era la comunicazione incrociata tra le diverse regioni cerebrali.
Dai positivi effetti sulla sfera emozionale a quelli stimolanti su quella cognitiva. Come dimostrano altri studi condotti da un pool di ricercatori delle Università di Tessalonica e di Münster (potenza della musica, appunto…) l’educazione musicale riorganizza e potenzia la capacità di integrazione sensoriale, modificando sensibilmente le connessioni fra i circuiti sensoriali di aree cerebrali diverse. Questo perché la lettura dello spartito e l’esecuzione musicale che ne deriva richiedono l’interazione di competenze visive, uditive e motorie. Per chi ha studiato uno strumento per anni, costringendo giornalmente le proprie mani a fare esattamente ciò che lo spartito richiedeva loro di fare, questo è da sempre evidente.

Abbiamo quindi implicitamente e parzialmente risposto all’ultima delle domande che ci siamo posti. D’altro canto, non possiamo non ammettere che ogni accenno ai molti studi, alle innumerevoli pubblicazioni e ai tanti progetti presenti in ogni parte del mondo dedicati alla pratica, all’ascolto, alla terapia musicale possa essere in questo brevissimo spazio una facile e irrispettosa semplificazione.

Possiamo comunque definire un semplice risultato finale, affermando che imparare a suonare è un’esperienza che consente una crescita più ricca e armonica dell’individuo, che contribuisce ad integrare diversi aspetti della personalità e – in certi casi – a fare di un’esperienza di apprendimento individuale uno strumento di educazione sociale (particolarmente importanti in contesti di degrado e povertà non solo culturale).

La musica classica però necessita di considerazioni differenti. Non perché la si voglia assumere come la migliore, l’unica degna di ascolto, ma perché quella che noi comunemente definiamo classica è una musica molto più nascosta di altre, almeno per chi già non la ama e la conosce.

L’ascolto collettivo della musica classica ha luoghi, tempi, necessità e riti molto diversi da quelli della musica pop e in generale la fruizione collettiva di un contenuto culturale sta mutando profondamente. Ha senso qui ricordare che il concerto classico è un’invenzione di due secoli fa, rimasta pressoché inalterata con i suoi ascolti lunghi e la dimensione quasi religiosa che pervade l’evento. Nel frattempo le forme della comunicazione fuori dai templi della musica colta hanno subito la radicale trasformazione che tutti conosciamo. Se nella comunicazione odierna il messaggio passa attraverso frasi semplificate e brevi e la sua veicolazione avviene attraverso i nuovi media, ciò che accade durante il concerto classico è l’esatto opposto: narrazione e sviluppo musicale continuo e sempre diverso, incontro e dimensione di scambio tra musicista e ascoltatore.

L’ISTAT, nella sua ultima fotografia annuale sui consumi culturali in Italia, ha messo a confronto la percentuale di popolazione che almeno una volta nel corso dell’anno 2019 è andata a sentire un concerto di musica classica con quella che ha seguito altri concerti: 9,6% per la musica classica, 20,2% per tutte le altre (per curiosità andate a guardarvi anche le statistiche della partecipazione ad altre forme di intrattenimento, ma vi anticipo che vince il cinema con il 49,3%). Guardando all’anno precedente le percentuali erano sostanzialmente uguali, ma se volessimo dar conto anche dell’età dei consumatori di questo tipo di cultura, basterebbe affacciarsi in un qualsiasi auditorium o teatro lirico italiano per scorgere una netta prevalenza di spettatori di non giovane età. Rinunciando a qualsiasi altra considerazione, l’allarme sulla necessità di rivolgersi ad un pubblico più ampio è chiarissimo. Tanto chiaro che le istituzioni musicali si stanno interrogando da tempo su quale sia il futuro della musica d’arte. Certamente questa è una riflessione che coinvolge anche le istituzioni preposte all’alta formazione musicale: perché se la musica classica non troverà un modo per farsi ascoltare, tutti i giovani che hanno scelto di farne un percorso anche professionale dovranno capire come mettere a frutto i loro studi. Soprattutto qui in Italia.

I titoli dei dossier/inchiesta pubblicati tra il 2014 e il 2016 da Musica+, una delle riviste che la Biblioteca mette a disposizione dei suoi utenti e dalla quale abbiamo attinto le preziose informazioni riportate, restituiscono bene la dimensione del problema: Dalla sala da concerto a YouTube; Il “concerto classico”: musica dal vivo o dal morto?; Perché fuori dall’Italia?; Quale lavoro per i musicisti?

Nel fascicolo numero 47 del 2017 la rivista offre al lettore una ricognizione delle esperienze di didattica inclusiva nei luoghi della Classica e dell’Opera. L’incontro didattico o divulgativo è lo spazio nel quale professionisti della musica e nuovo potenziale pubblico costruiscono presupposti di un futuro rapporto. Dovremo ancora attendere qualche anno per capire se questi semi porteranno i frutti sperati e fino a che punto invece spingeranno verso una sempre maggiore destrutturazione di questo tipo di proposta musicale.

Di Laura Ventura

Fotografia di Ramella&Giannese - © Teatro Regio Torino (part.)