The Cure (la trilogia dark)
Formatisi alla fine degli anni ’70, i Cure propongono inizialmente musica rivolta alla fase classica del punk rock, piuttosto che al post dark punk e dark wave che li vedrà protagonisti indiscussi. Sono considerati, insieme ai Joy Division, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees e Sisters Of Mercy, un’icona dark per eccellenza. Band da sempre storicamente soggetta alla cosiddetta politica della porta scorrevole, ha variato più o meno in modo regolare nel corso di questi lunghi anni di carriera la propria formazione: sarebbe inutile negare che questa politica è certamente da tempo immemore condizionata, e allo stesso tempo fortemente dipendente, dalle inclinazioni creative e dalle correnti profonde (nonché quindi dalle sue apparenti brusche virate) dell’ispirazione stessa di Robert Smith, storico leader maximo della band. Cantante e chitarrista, capo egocentrico e spirituale, frontman, compositore della musica, Smith è oggi uno dei più amati personaggi a livello mondiale. Nato nel Lancashire, il leader dei Cure, col suo stile goth-punk (capelli cotonati, matita agli occhi, rossetto, camicia nera larga, pantaloni neri e scarpe da ginnastica bianche) è diventata un'icona decisamente versatile, suonando nel corso della sua lunga carriera la chitarra (baritona), il basso, le tastiere, il violino e anche la batteria. Le sue ossessioni, la visione della vita e del mondo, uno stato fisico e mentale precario ma soprattutto la depressione di cui soffriva lo portarono a fare uso di droghe, mandando in corto circuito il cervello e alienandosi il resto del gruppo. È in questa luce che nascono i tre capolavori della cosiddetta trilogia dark, di cui ci occuperemo in questo spazio. È bene ricordare che la storia della band non si è conclusa con l’ultimo disco pubblicato nel 2008 (4:13 Dream) ma pare avere un seguito con il nuovo lavoro in uscita verso la fine del 2020…
Seventeen seconds (1980) è stato registrato in appena una settimana a causa del basso budget a disposizione da un gruppo di ragazzini che hanno saputo mettere su carta musica tanto adulta: tuttavia è oggi considerato uno dei capolavori e capostipiti del movimento gothic rock, fissando in qualche modo le coordinate del genere, nonchè primo capitolo della trilogia dark, insieme ai successivi Faith e Pornography. Influenzato dai lavori da poco rilasciati dei Joy Division e Siouxie and the Banshees, il disco si muove subito sulle coordinate del minimalismo, della freddezza e cupezza melodica: Robert Smith comincia da qui la discesa verso le più cupe elucubrazioni mentali. Diciassette Secondi di meraviglioso suono atmosferico e cristallino, semplice, ma di immenso impatto emotivo. Il nichilismo di questo album è concreto, l’oscurità e il dolore esponenziale si intrecciano in un vortice di oscurità e disperazione ai massimi livelli. La voce di Robert Smith, inconfondibile, intensa, espressiva e dolente si innalza a suggellare il basso pulsante di Gallup (colonna portante della band e vero e proprio alter ego di Smith), l’asettica batteria spesso elettronica, le tastiere timide e appena abbozzate in inquietanti riverberi desolanti e cupi. I Cure di Robert Smith camminano a passi lenti per boschi fatati e pericolosi e toccano, con il brano A forest, che da solo vale l’ascolto del disco, apice iconico, fulcro dell’opera, tenebra inesplorata, decadente e noir con quattro note che si evolvono in un vertiginoso saliscendi di momenti rarefatti e intensi, cupi, il cui ritornello è accompagnato da una sezione ritmica ripetitiva, cadenzata. A tal proposito Smith dichiarò che la canzone fu ispirata ad un sogno fatto da bambino, perso in un bosco. L’oscurità divorava la sua paura che altro non è che oscurità interiore anche quando una figura pareva riportarlo sulla strada della liberazione, inutilmente: e qui, si compie il tragico destino di chi non troverà quel che cerca, alla fine della sua strada. Stupendo il finale, con il basso di Simon Gallup che suona come un cuore pulsante e accappona la pelle. Un disco che rappresenta pienamente l’affresco lirico e sonoro ivi contenuto: lievi pennellate d’acquarello sulla vuota tela dell’esistere.
Faith (1981) gioca ancor di più sui ritmi cadenzati e diluiti, sulle venature emozionali, sui tratti fluttuanti e sui pastelli: qui non c'è luce; non c'è vita. Tutto è racchiuso in un abbraccio chiaroscuro in cui si sono appassite le prime ore del giorno. Faith, con i Cure ridotti ad un terzetto, sprofonda in una poesia notturna e intima in cui Robert Smith si è rifugiato per piangere con la sua voce che chiede di condurlo ad una fede disperata e forse irraggiungibile. Si tratta del vinile che più di ogni altro ha risentito dell’influenza dei Joy Division e dalla tragica morte del suo cantante Jan Curtis: brani lunghi, dallo sviluppo lento e solenne, con tastiere e basso a sei corde che spesso affiancano o sostituiscono la chitarra. Piuttosto sottovalutato al momento della sua uscita e accolto da pareri contrastanti da parte dei critici, Faith acquistò via via considerazione fino ad essere indicato come un punto fermo nella discografia della band. La voce di Smith si innalza costipata, visionaria e introversa come una litania verso il teatro crudele e fittizio della vita, incantando il suono acido che scorre sotto: i due brani emblematici del disco, All cats are grey e Funeral party sono abissi contemplativi che vanno al di là delle convenzioni compositive e dove il canto struggente regala litanie e orazioni disperate sul tema della perdita dell’innocenza e sulla consapevolezza della morte in senso pagano, alimentando così il mito dei Cure come quintessenza della musica gotica. Anche Other voices si dipana quasi come una colonna sonora adatta ad una danza macabra a cui manca mordente e in cui gli accordi di chitarra soffocano sotto un basso pungente che ricorda il ritmo di un tango della catastrofe. Potremmo concludere questa veloce disamina di Faith usando il termine geometrismo compositivo ed essenziale che caratterizza tutte le canzoni del disco: ci sono pochi “scatti”, pochi gesti eclatanti e ritmi di una monotonia asfissiante e noiosa accompagnati ad una certa freddezza emotiva che spinge l’ascoltatore oltre la tristezza e la paranoia: ma qui sta la grande magia di questo disco, la ossessività dolorosa che lo accompagna in ogni singola traccia, in ogni solco del vinile.
Pornography (1982), capolavoro assoluto, gioca tutto sulle ritmiche del basso e della batteria, mentre la chitarra di Smith supera se stessa inanellando riff di una incisività sovrumana e memorabile. Le crisi personali, il nichilismo, l’attrazione per un atteggiamento solenne e liturgico, la depressione che sconvolge Smith, le droghe e l’alcool di cui fanno largo uso i componenti della band, sono elementi che influenzeranno la genesi di questo disco e la sua bellezza. Va da sé che l’intero vinile non lasci spazio all’allegria, ma sprofondi nella malinconia e nel nichilismo più oscuro. È un capolavoro che si arrende e rifiuta la vita in claustrofobici episodi, un disco pesante: i ritmi sono catatonici, i giri di basso ossessivi, le tastiere atmosferiche scavano un buco nel cuore e la voce ipnotica si insinua sotto la pelle, la batteria e la chitarra rievocano un cerimoniale funebre, aprendo a immaginari paesaggi dell’anima desolanti e da incubo. Per questo Pornography è non solo disco dark per eccellenza ma anche disco “maledetto” che si regge su sfumature nere come la pece o in ambientazioni caotiche e tempestose i cui suoni sembrano rintocchi cadaverici all’interno di una cattedrale gotica. Ma non basta: il disco è stracolmo di visioni oniriche, deliri notturni, incubi da follia pura che producono immagini distorte, mostri che vagano in buie stanze o animali pronti ad aggredire. Il minimalismo della musica dei Cure è maniacale, ben studiata e scaturita dalla depressione di Smith e dalle sue allucinazioni notturne. Il “cuore” di Pornography è condito da testi astratti che non lasciano speranza, non hanno luce e aprono solo ad un mondo di tenebre totali, grida soffocate, dolori lancinanti prontamente anestetizzati dal massiccio uso di droghe. Per questo il disco è affascinante e suona come una danza nel plenilunio di ombre che lo abitano. Il brano d’apertura, One Hundred years, incubo ambient, raggela immediatamente l’anima bloccando qualsiasi compromesso alla luce e alla speranza: l'incedere ossessivo della batteria elettronica, gli spettrali cori delle tastiere, le lancinanti staffilate chitarristiche preparano il terreno alla declamazione concitata di uno Smith in piena crisi nervosa. È la perfetta canzone dark, dove rimpianto e sofferenza, ricordi di amori e di felicità di un mondo privo di senso sono ormai perduti. Inni e declamazioni di una crisi che evidentemente i ragazzi degli anni Ottanta (il loro pubblico), disorientati dal vuoto di prospettive e dal conformismo di quel decennio fecero propri, innalzando la band inglese a vero e proprio culto dilagante in tutta Europa. Ricordiamo ancora A strange day, scandita dal ritmo della batteria di Tohlurst, glaciale, fredda, quasi meccanica, per poi ripiombare nel dolore lirico di Cold, che si apre col suono di un organo gotico
La musica dei Cure è ancora oggi un marchio di fabbrica per milioni di fan, la cui voce è una sola: Robert Smith. La tragica bellezza del suono di questa band ha attraversato decenni indenne, spargendo a piene mani quel dolore e quella inquietudine che attraversa il mondo nelle sue forme più disparate e disperate e questo costituisce certamente la cartina di tornasole della rappresentazione di un disagio, specialmente giovanile, ma non solo, che alberga in ampi strati della umanità. La musica è veicolo determinante e fondamentale per traghettare degnamente sentimenti ed emozioni di qualsiasi genere, per fissare sulla propria onda lo spirito, l’anima, le emozioni e offrire ad esse una risposta, qualunque essa sia, ovunque essa si annidi.
Di Renzo Bacchini
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