Un Cohen straordinario

Marinella Venegoni

Cantautore, scrittore, poeta, compositore, Léonard Cohen è stato veramente un pezzo di storia della musica del dopoguerra, come scriveva Marinella Venegoni in questo articolo del marzo 1995. Ebreo, nato da una famiglia immigrata in Canada, ha sempre dichiarato che “Per sua natura, una canzone deve muovere da cuore a cuore”: e questa poetica e filosofia lo ha accompagnato per tutta la vita con rigore e impegno. È stato insignito di prestigiosi premi, fra i quali quello di Ufficiale dell’Ordine del Canada (1991), grand’Ufficiale dell’Ordine Nazionale del Québec (2008), Premio Principe delle Asturie per la letteratura (2011). La sua musica si avvicina alla poesia, al sentimento delle cose sfiorate, allusive solo in apparenza. La grande passione è sempre stata la scrittura, il succedersi delle parole. Negli ultimi trent'anni sono usciti otto volumi di poesie, due romanzi e undici album. Scomparso nel novembre del 2016, ha lasciato una eredità formidabile di capolavori musicali e non solo, che lo hanno collocato di diritto nell’Olimpo delle grandi personalità della cultura del Novecento.

Un Cohen straordinario

È certo poco in linea con i tempi la musica che Léonard Cohen ha portato fuggevolmente e per la prima volta in Italia, nei due soli concerti di ieri al Teatro Orfeo di Milano. Tanto la musica che si fa oggi è ricca, rutilante, multiforme, quanto la sua è scarna, dolce, quasi ipnotica, tutta tenuta sul fraseggio delle chitarre (che come si sa non sono più di moda), con la scansione della batteria appena accennata. Quello di Léonard Cohen è un concerto solenne, una cerimonia del pensiero che canta. Antichi percorsi della memoria, zone di pre-ricordo, vengono attivati da quest'uomo che a 51 anni sembra uno che aveva cinquant'anni negli Anni Cinquanta, di mezza età come si era allora, la faccia della nicotina, una chitarra nera come i capelli e il vestito e la maglia che indossa. Un fascino immediato, di una figura che non ha più l'età per i concerti e sembra un poeta strambo di una cave parigina. Il mondo di Léonard Cohen è assai speciale, lui poeta e scrittore compone testi che sono piccole opere d'arte incastonate in poche avare note, ma che senza musica non sarebbero la stessa cosa dei suoi numerosi libri di poesie. Il suo prodotto-canzone è un'offerta delicata e insieme austera di un mondo poetico che deve la sua particolarità a molte culture. Quella Yiddish, certo, ma anche quella composita del Canada dov'è nato e cresciuto, dove le grandi correnti del folk e del blues americano si sposano con la tradizione più nobile della canzone francese. In questo cocktail si ritrova l'unicità del personaggio, che ha alimentato con le sue rare apparizioni in disco e dal vivo la leggenda tanto cara a una certa parte del mondo della canzone: vivere tra i pescatori (nell'isola greca di Idra) e poi uscire, sul mercato, quando le corde del cuore sono piene. Teoria poco praticata in questi tempi maligni di sovraesposizione, e che conserva ancora a Cohen un grande carisma. Ad alcune delle nuove regole dello starsystem, Cohen non è stato però insensibile. Negli ultimi tempi, con il disco Various positions è uscito un libro di poesie, Book of Mercy, e anche un video di mezz'ora. Ma l'uomo resta quello che è, in una coerenza artistica rara. La sua voce roca (cui quella di De André somiglia cosi tanto) rompe la musica con straordinaria e pacata dolcezza, alcune delle canzoni dell'ultimo album, Dance me to the end of love, Halleluyah, There's a law... hanno una presa immediata di quelle storiche: Bird on a wire che apre il concerto, Lover lover lover, Suzanne. E chi non le ha cantate? Il concerto non trascura nulla di una cosi lunga avventura artistica. La luce che muta colore sul fondale illumina le facce giovani del musicisti che lo circondano, due chitarre soliste ricamano le canzoni, una bellezza esotica, Janet Anyani Thomas, suona alle tastiere e accompagna il canto. A volte, Cohen dialoga brevemente con il pubblico, con ironia sorniona: “Adesso smettiamo per dieci minuti di intervallo. Mi raccomando tornate, non andate via”. All'inizio della seconda parte, solo sulla scena, dimentica le parole di una canzone, chiede scusa e il permesso di ricominciare daccapo. In sala, ci sono quelli che sono cresciuti con le sue canzoni, e subito le riconoscono e le applaudono. Ma ci sono anche facce giovani di studenti, in religiosa ammirazione. Cohen è un pezzo di storia della musica del dopoguerra, se per molti della sua generazione è rimasto uno che nel Cinquanta precorreva i Sessanta, moltissimi altri appena più giovani gli riconoscono il merito di aver insegnato al rock una coscienza più severa della disciplina formale, e chi ama i cantautori italiani, sa che De André e De Gregori hanno preso da lui il gusto e la voglia di imbracciare la chitarra e incominciare a suonare. A cinquant'anni suonati, mentre nel pop vagano meteore che durano sei mesi, il personaggio Cohen è ancora pienamente aderente al mito. E pazienza se lo amano in pochi. Grande pubblico, numerose le chiamate alla fine del concerto.

Marinella Venegoni - «La Stampa», 25 marzo 1995

Di Renzo Bacchini

Rielaborazione grafica di Roberta Di Martino

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