"When the world stopped to listen". Titolo o invocazione?

Harvey Lavan Van Cliburn - Dutch National Archives, The Hague, Fotocollectie Algemeen Nederlands Persbureau (ANeFo)

Quando il mondo si fermò ad ascoltare. Van Cliburn, il pianista che vinse la guerra fredda di Stuart Isacoff: titolo e libro, giunti in Biblioteca musicale nella traduzione in italiano di Marco Bertoli, attraggono facilmente l'attenzione di chi passi in rassegna i volumi della sala novità.

Perché dentro c’è una storia balsamica, di quelle che ti aprono i polmoni… Perché parla di un pianista che fece il miracolo. Perché fa divulgazione con gli strumenti di una narrazione storica ricca di particolari anche di costume e calata in una dimensione trasversale capace di tenere insieme la fremente tensione che riserveremmo a una spy story e la leggerezza di una favola moderna.
Se con divertita distensione si affrontano le pagine che raccontano gli studi alla Juilliard e i primi successi in patria del giovane texano, man mano ci si addentra nel tessuto fitto del contesto politico, delle persone, delle diverse azioni e circostanze che portarono Van Cliburn ad essere il pianista americano che vinse –  circondato dal tifo e dall’affetto sincero dei moscoviti e dall’incredulità disarmata del Cremlino –  il primo Concorso Čajkovskij nel 1958.
Azioni, innanzitutto, che partirono dalla necessità di condurre e dal tentativo di plasmare i comportamenti e le fissazioni del talentuoso pianista.
Chi nella sua vita colleziona ritardi e sensi di colpa (insieme a un articolato catalogo di scuse), si sentirà sollevato nel leggere della cronica vocazione di Van a far attendere. Anche quando si trattava del pubblico ai suoi concerti, inventandosi le strategie più bizzarre e geniali per rimediare. Per evitargli situazioni simili proprio mentre la sua carriera stava prendendo quota, la gestione della logistica quotidiana di Van fu affidata a Naomi Graffman. Tutte le mattine verso le dieci (il pianista era un gufo… nel senso che amava vivere di notte) la Graffman chiamava il centralino dell’Osborne e parlava con la signora Hughes, a capo della reception. Costei faceva squillare il telefono di Van finché non lo tirava giù dal letto […].
Quando però a New York si venne a sapere del nuovo bando di concorso che Mosca aveva preparato, tutti, dal preside della Juilliard Mark Schubart, a Olegna Fuschi, a Rosina Lhévinne (insegnante di Van) e molti altri appartenenti a quella che l’autore definisce la nobiltà americana della musica, immediatamente pensarono ad  Harvey Lavan Cliburn Jr. detto Van. Lui invece era tormentato da cattivi presentimenti, superati solo grazie all’intervento di una chiaroveggente vicina di casa che gli raccontò di aver avuto la visione di lui vincitore di una medaglia d’oro nel corso di una visita a un Paese agricolo: con ciò ebbe inizio la grande ossessione del pianista per l’astrologia, passione che si fece man mano più pervasiva e condizionante.
Tutto intorno c’era quel clima che l’autore descrive senza omettere percezioni e sentimenti collettivi di intere società e nazioni. E governi.
Nello scorrere le righe del racconto, ci si stupisce quasi della naturalezza con la quale eventi apparentemente distanti e scorrelati abbiano in realtà costruito le basi di nuove consapevolezze e altrettanto mutate necessità. Il lancio dello Sputnik nel 1957 e i flop dei satelliti americani; le tensioni crescenti fra Unione Sovietica e Stati Uniti; già prima, attraverso impercettibili segnali, diplomazie culturali che si rimettono in moto, l’orgoglio di una nazione che nel 1951 tenta di dar gambe a un progetto del presidente del Comitato sovietico degli affari artistici Bespalov per fare di Mosca la capitale globale della cultura musicale con l’idea di dimostrare la superiorità della cultura socialista; il discorso di sette ore al Congresso di Nikita Chrušcëv del 1956 nel quale denuncia Stalin e il suo culto della personalità e affretta la liberazione di milioni di prigionieri dai campi di lavoro; il ministro della cultura Mikhailov che nello stesso anno decide di riesumare il progetto Čajkovskij, costituendo un Comitato organizzativo presieduto da Šhostakovich; l’accordo culturale USA-Unione Sovietica firmato nel gennaio del 1958.
L’affresco che incornicia l’arrivo di Van a Mosca è ricco di particolari e non mancano aneddotica e considerazioni sulle narrazioni distopiche fatte intorno alla cultura americana in Russia e a quella sovietica negli Stati Uniti.
Finalmente, arriva il momento di parlare del concorso, dei suoi protagonisti, delle tante comparse.
Avrete intuito che quel premio doveva esser vinto da un russo. Lowenthal, uno dei concorrenti francesi, giunto a Mosca trasse l’impressione di essere sulla luna. “Un po’ alla volta ho cominciato a intravedere la verità: quella in cui mi trovavo coinvolto non era una semplice competizione musicale”. A causa della posta in gioco, molti dei migliori pianisti russi, per un motivo o per l’altro, si sfilarono. A portare il peso delle aspettative della nazione e del suo governo rimase Lev Vlassenko, il giovane pianista abile anche con le lingue, che era stato in grado di tradurre quello che Glenn Gould aveva detto in occasione di una sua esibizione al Conservatorio di Mosca nel 1957.
In ogni caso, tutto quanto il contingente sovietico fu sottoposto per mandato governativo a un regime di addestramento non meno gravoso di quello degli atleti in preparazione per le Olimpiadi e ogni concorrente straniero non mancò di avere nutrite schiere di angeli custodi e attenti ascoltatori pronti a seguire e spiare movimenti, gusti e compagnie.
Vi ho detto quali fossero i nomi dei mostri sacri presenti in giuria? A parte un prostratissimo e tesissimo Shostakovich, fra i 17 membri c’erano i pianisti Emil Gilels, Svjatoslav Richter, Heinrich Neuhaus, Pavel Serebryakov, Dmitrij Kabalevskji, e diciamo pure che tra loro il clima non si poteva definire propriamente disteso.
Non vi sto a raccontare quali furono le fasi e le tensioni delle varie prove del concorso, quali le difficoltà di Van, che effetto ebbe la sua sola presenza sul pubblico e quali le conseguenze della sua vittoria. Addirittura, il Post sostenne che erano state gettate allora le fondamenta di una nuova era. “Forse la maggiore speranza del mondo, oggi, va cercata nella comprensione fra i popoli che l’arte consente, laddove i loro portavoce ufficiali sono incapaci di comunicare”.

Io, dopo aver letto queste pagine, mi sono precipitata a vedere se trovavo qualcosa su internet e ho capito. Vedere quelle mani gigantesche e mobilissime, la padronanza e la fluidità del discorso musicale, sentire la morbidezza e la naturalezza dell’interpretazione è stata una vera epifania. Ho capito l’autore quando scrive Van suonava come un angelo. E i moscoviti, gente con il cuore in mano, glielo offrirono.
Non credo di dover aggiungere altro; non vorrei togliervi il gusto di una lettura intima e personalissima.

Di Laura Ventura