Senza occhiali con Anna Maria Ortese

Sono miope e astigmatica. Se dimentico di inforcare gli occhiali, per strada, tutto ciò che vedo perde contorni certi: le luci sbocciano in fantasmagorie stellari, i volti delle persone, le loro figure, si stemperano come negli acquerelli che raffigurano paesaggi piovosi. È una sensazione di smarrimento e, insieme, un invito a rallentare il passo, esperienza così rara quando le giornate sono scandite dalla fretta.

Leggere Anna Maria Ortese richiede il coraggio di abbandonare gli occhiali o di indossare, per chi vanta una buona vista, lenti adeguate ad intraprendere un viaggio popolato da creature e luoghi sfolgoranti e ineffabili; bisognerà adeguarsi a camminare lentamente dentro il mondo, accettandone le sfocature, le zone grigie, entrare nelle storie dove i personaggi sembrano apparizioni e i loro incontri hanno la bellezza e la luce dei colori che si mescolano e danno origine a sfumature nuove eppure antichissime. Ma non si tratta di un’esperienza estetica, non di un puro esercizio di stile. L’opera di Ortese, nel suo insieme, svela un sapiente controllo sulla lingua, una precisa intenzione nella scelta di ciascuna parola e di ciascuna storia per raccontare la vita attraverso visioni di ambivalente bellezza. Ortese possiede questo dono: dispiegare tutta la ricchezza della nostra lingua e porla al servizio della storia, senza ammiccamenti intellettuali o velleità sperimentali, senza individuare un pubblico e senza perseguire un obiettivo morale, politico o sociologico. La narrazione mira a catturare in punta di dita ciò che tenta di fuggire attraverso le crepe del mondo reale e che si mostra con contorni non sempre definiti, trattenuto da fili brillanti di parole.

Nelle storie di Ortese il flusso di coscienza (che tanto ha occupato la mente dei critici e creato schiere di plaudenti e di detrattori) si srotola in modo naturale nel racconto come un nastro sontuoso dai colori cangianti e contiene, quasi senza peso, dolori profondissimi e cicatrici estese che si trasfigurano nei personaggi e nei luoghi. Ortese prende dalla realtà ciò che alla realtà sfugge, i vuoti che non sapremmo definire con le parole, le svolte improvvise e crudeli della nostra vita comune, l’ineffabile manifestarsi dei sentimenti dagli effetti semplici, ma dalle cause spesso non sondabili, la deprivazione dei più umili tra gli umili che si confronta, senza finzioni, con la grottesca, illusoria presunta superiorità degli altri.

Siamo di fronte alla meraviglia e al potere trasformativo della parola che accende una luce discreta e preziosa sugli angoli polverosi, sui muri sbrecciati delle nostre vite. Ortese è una narratrice di storie che attingono alla fiaba, poiché è nella dimensione fiabesca del meraviglioso che si può rappresentare la realtà e le sue amarezze senza restarne brutalmente schiacciati. Apre strade che non sarebbero percorribili con le mappe scientifiche dei geografi, ci mostra invece carte di antichi viaggiatori, dove il non conosciuto ha le sembianze di mostri meravigliosi e spaventosi.

Abbandonare gli occhiali in sua compagnia diventa così una nuova possibilità di fare esperienza del mondo, rassegnandosi da una parte a non poterne sconfiggere la concretezza, ma concedendosi dall’altra il privilegio di attraversarla, con tutti i nostri fardelli e la nostra consapevolezza, per incontrare storie che forse non consolano, ma ci portano altrove, in giardini di metafore dove passeggiare guidati da parole preziose e incontrare donne-iguane, miniature di fanciulle che emergono da un Settecento napoletano luccicante, bambine misere e quasi cieche in attesa del miracolo di un paio di occhiali. Un miracolo che non avverrà perché, attraverso le lenti, il mondo diventa quello che è: ingombrante, feroce e prosaico.

Ortese non ci offre un’esperienza intellettuale fine a se stessa, ci regala a piene mani parole che esaltano l’ineffabile potere narrativo delle storie per stemperare, almeno un poco, la realtà e renderla sfondo anziché proscenio del palcoscenico su cui si svolge la vita. Nata e vissuta povera, poco scolarizzata, una vita segnata da lutti importanti, Anna Maria è l’incarnazione del potere salvifico della parola che non annulla il vissuto, ma può trasfigurarlo in una storia dove il meraviglioso ci scherma dal costante rapporto con il mondo, così pieno di spigoli vivi e di colate di cinismo.

Leggere Ortese è un invito a cogliere nelle sfocature del mondo e degli esseri viventi, in tutto ciò che non possiamo ridurre a completo svelamento, una possibile nuova prospettiva sulla nostra angoscia di viventi, di morenti. Così lo sperdimento, il senso di inadeguatezza di fronte al rumoroso lavorio dell’universo, la paura di ciò che ci attraversa e che non possiamo addomesticare, diventano spiragli di una strana e portentosa luce di cui stupirsi, inquieti, ma anche animarsi scoprendo in noi una nuova attrazione verso l’indefinito.

I coni d’ombra nei quali Ortese ci invita ad entrare, ospitano, a volte, una malinconia gentile, come certi residui di sogni che fatichiamo ad abbandonare al risveglio. Così, lasciare gli occhiali in sua compagnia – o indossarne di nuovi e imprevedibili - può dare accesso a inattese forme, tragiche e sublimi, della bellezza e, paradossalmente, offrirci la possibilità di guardare/vedere altrove più intensamente, addirittura più lontano.

Testo di Marina Caramello (Biblioteche civiche torinesi)