Storia di una vocazione. Lessico e virtù di Natalia Ginzburg

“Ecco Maria Temporala!” (Lessico famigliare, 1963)

C’è una bambina col caschetto di capelli neri e la frangia, i cui lineamenti rassomigliano a quelli di una piccola indiana d’America dagli occhi a mandorla, che gioca e cresce nel cortile di via Pastrengo 29, a Torino. Quella bambina è Natalia Levi (poi Ginzburg). A tratti imbronciata e schiva, la madre le affibbia il nomignolo di “Maria Temporala” e così la chiama quando la vede entrare in cucina, al mattino, con l’espressione cupa e nuvolosa. Natalia è timida, di una timidezza che le sarà compagna lungo il resto della vita e della quale dirà, molti anni più tardi, riflettendo sul senso e sulle modalità dei rapporti umani: “Con meraviglia, ci accorgiamo che adulti non abbiamo perduto la nostra antica timidezza di fronte al prossimo: la vita non ci ha per niente aiutato a liberarci della timidezza. Siamo ancora timidi. Soltanto, non ce ne importa: ci sembra d’esserci conquistato il diritto d’essere timidi: siamo timidi senza timidezza: arditamente timidi” (Le piccole virtù, 1962). Natalia ha una sorella e tre fratelli maggiori. A tavola, quando la famiglia è riunita, ogni tanto prende la parola nella speranza di essere ascoltata, ma deve parlare il più velocemente possibile, altrimenti non la lasciano finire e passano a un argomento differente. Ma la piccola di casa Levi avrà presto modo di far sentire la propria voce attraverso la parola scritta, forma espressiva che sentirà appartenerle profondamente: spesso con difficoltà e dolore, sempre con coraggio e onestà. La comunicazione orale, soprattutto se svolta di fronte a un pubblico, non le riuscirà mai calzante: Natalia non è un’oratrice, ma è una sensibile osservatrice delle sfumature umane, che le suscitano un coinvolgimento interiore tale da tradursi, poi, in un fiume di inchiostro.

La bambina Natalia studia a casa, perché il padre ritiene che la scuola sia un covo di pericolose malattie contagiose. Ma lei non è studiosa e mai lo sarà. Persa in un mondo di sogni e fantasticherie, le sue curiosità non trovano appagamento nei libri scolastici, nell’aritmetica o nella geografia, quanto piuttosto nei romanzi che recupera avidamente dagli scaffali della libreria di famiglia. Così rivivono nella memoria dell’adulta Natalia i risvegli della sua infanzia: “Mi alzavo tardi e facevo bagni lunghi e caldissimi […]. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. […] le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere” (Mai devi domandarmi, 1970). Quando si affaccia sugli anni dell’adolescenza, esauriti ormai i libri adatti all’infanzia, Natalia fruga di nascosto tra gli scaffali per cercare quelli che suo padre definisce libri indecenti: lei vorrebbe leggere poesie tristi, che riflettano la sua stessa malinconia; ma divora con orgoglio e spirito di ribellione questi presunti libri indecenti, dei quali ammette di non capire nulla, e al loro interno si convince di scovare proprio quella tristezza di cui va tanto alla ricerca: “siccome nella mia testa confusa i misteri degli adulti si mescolavano e si accoppiavano con la tristezza, tutti quei libri che capivo poco mi sembravano tristi: vi bevevo malinconia” (Mai devi domandarmi, 1970). 

L’adolescente Natalia esce di casa ogni mattina, da sola, attraversando d’inverno banchi di nebbia, per recarsi al liceo classico Alfieri. Beve svogliatamente un paio di sorsi di caffelatte e si porta dietro un panino con burro e acciughe per la merenda. È arrabbiata con la madre perché la lascia andare a scuola da sola, ma soprattutto sfoga su di lei il senso profondo di solitudine e diversità che prova nei confronti dei suoi coetanei. Non riesce a fare amicizia, si sente emarginata, e il suo rendimento scolastico lascia sempre a desiderare. Teme il giudizio degli altri sulla sua famiglia, una famiglia che lei stessa fatica a capire: una famiglia ebrea ma non religiosa, una famiglia antifascista in mezzo a una società di fascisti. Natalia esce dal nido protetto e dal mondo immaginifico della sua infanzia per scontrarsi con una realtà dura e faticosa: diviene malinconica, triste, e a volte arriva perfino a disprezzarsi. Scrive poesie.

“Ci sposammo, Leone ed io” (Lessico famigliare, 1963)

Natalia è un’adolescente che immagina l’amore quando si taglia i capelli da sola, con le forbici, e si fa una pettinatura da maschio. Scrive Sandra Petrignani nella sua ricca biografia della Ginzburg: “Lei, in quella sua prima giovinezza, sognava d’innamorarsi di un bell’indifferente, frutto della fantasia […]. E forse perché non si faceva avanti nessuno con queste caratteristiche, cominciò lei a prenderne il posto, a somigliare alla figura maschile della sua immaginazione” (La corsara: ritratto di Natalia Ginzburg, 2018). Natalia in questo periodo invidia i maschi, innanzitutto quelli della sua famiglia per la loro libertà. Considera “la mancanza di obiettività e il sentimentalismo” i maggiori difetti delle donne e teme che lo stile della sua scrittura possa rivelare proprio questi stessi difetti. Vorrebbe essere scambiata per un maschio, vorrebbe somigliare a un maschio. Ma Natalia si sposa, lasciando dietro di sé le inconsistenti fantasie adolescenziali e accettando la sua piena natura di donna. È al marito Leone Ginzburg che deve il cognome col quale continuerà a firmarsi e nel quale continuerà a riconoscersi. “È uno coltissimo, intelligentissimo, che traduce dal russo e fa delle bellissime traduzioni” dice di lui la mamma di Natalia in Lessico famigliare (romanzo autobiografico che le vale il Premio Strega nel 1963). Leone è infatti un intellettuale di origini russe, ebreo e antifascista. Incarcerato più volte e tenuto sotto stretta sorveglianza dal regime, non si lascia intimidire facilmente e non rinnega mai i suoi ideali. “Aveva un paltò troppo corto, un cappello frusto: il cappello piantato un po’ storto sulla nera capigliatura. Camminava adagio, con le mani in tasca: e scrutava attorno con gli occhi neri e penetranti, le labbra strette, la fronte aggrottata, gli occhiali cerchiati di tartaruga nera, piantati un po’ bassi sul suo grande naso”. Trascorre le serate in compagnia dell’amico Cesare Pavese e rimane spesso sveglio fino alle tre di notte a leggere libri tirati fuori casualmente dagli scaffali della libreria. Leone è il primo fra i collaboratori di Giulio Einaudi, quando la casa editrice comincia lentamente a prender vita. Ed è proprio grazie a Einaudi che viene pubblicata la maggior parte della produzione letteraria di Natalia: l’incontro fra Natalia ed Einaudi è un incontro fondamentale, e per la scrittrice e per l’editore. Nel 1940 Leone, con Natalia e i tre figli al seguito, viene mandato in confino in Abruzzo. Natalia racconta con dolcezza e nostalgia, nel ricordo autobiografico Inverno in Abruzzo che apre la raccolta de Le piccole virtù, quegli anni trascorsi al piccolo paese del Centro Italia, lontano dalla Torino che era casa per entrambi. Anni di malinconia ed esilio, anni d’inquietudine e attesa. Eppure c’è una grande tenerezza nelle parole di Natalia che rivive le passeggiate invernali sotto la neve coi suoi bambini, la pasta fatta in casa preparata dai vicini, la bottega nella quale comprare torrone e caramelle a Natale. Dopo il confino, nel 1944 Natalia e Leone si trasferiscono a Roma, dove Leone muore nel carcere di Regina Coeli, in conseguenza delle brutali torture inflittegli dai nazisti. Allora, solo allora, riconosce Natalia dopo l’orrore del destino di Leone, diventa chiaro come il confino sia stato il periodo migliore della loro vita. Con parole sobrie, asciutte e contenute, ma che non nascondono il dolore della perdita, Natalia annuncia la morte di Leone in Lessico famigliare: “Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice. Non avevo molti elementi per crederlo, ma lo credetti. Avevamo un alloggio nei dintorni di piazza Bologna. Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori di casa. Lo arrestarono, venti giorno dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più”.

"Questo è il mio mestiere, e io lo farò fino alla morte” (Le piccole virtù, 1962)

Nell’ottobre del ’44, Natalia cerca lavoro a Roma. I suoi figli sono a Firenze, insieme ai nonni; ma lei non vuole essere mantenuta ancora dai genitori e spera di poter offrire ai figli una nuova abitazione da chiamare, finalmente, casa. Desidera farsi assumere nella sede romana dell’Einaudi, e ci riesce. Lavorare nella casa editrice porta alla luce molte delle insicurezze di Natalia, da lei illustrate nel ricordo Pigrizia inserito in Mai devi domandarmi: “L’ostacolo principale ai miei propositi di lavoro, consisteva nel fatto che non sapevo far niente”. Natalia si ritiene una persona priva di competenze: non si è mai laureata, non conosce bene le lingue straniere, non sa scrivere a macchina. Sa solo scrivere romanzi. Ma il suo vizio peggiore è la pigrizia, la tendenza cioè a perdersi nell’ozio e nelle fantasticherie; ritiene inoltre di essere una persona priva di idee. Preoccupata e spaventata da queste sue debolezze, durante l’orario di lavoro teme costantemente che qualcuno le scopra e la smascheri. Di conseguenza, non intrattiene molte relazioni sociali coi suoi colleghi e si sente spesso sola. Per scongiurare il pericolo della pigrizia latente, lavora con totale dedizione, con foga e ansia di rendersi utile: “Mi feci fare una chiave e venivo in ufficio anche la domenica”. Natalia si risposa, nel 1950, con lo scrittore e critico letterario Gabriele Baldini. Alla figura di Gabriele dedica diversi scritti e memorie, come il commovente Lui e io contenuto in Le piccole virtù o l’ironico e spiritoso La casa in Mai devi domandarmi. La vita di Natalia si è già rivelata densa e difficile, e lo sarà nuovamente anche negli anni successivi. Da Gabriele le nasceranno due figli con gravi problemi di salute, uno dei quali non sopravvivrà al primo anno di vita. Lo stesso Gabriele morirà a soli 50 anni, nel 1969, lasciandola vedova per la seconda volta. Si dedicherà alla politica, seppur con molte incertezze, e riuscirà a farsi eleggere in Parlamento con il Partito Comunista una prima volta nel 1983, per poi essere rieletta nella legislatura successiva. I discorsi che pronuncerà alla Camera saranno sempre votati alla protezione dei più deboli e degli indifesi, al mantenimento della pace, al disarmo unilaterale. Collaborerà inoltre con importanti testate giornalistiche nazionali, tra cui il Corriere della sera e La Stampa. Ma non ha importanza, ora, soffermarsi ulteriormente sugli episodi e gli eventi della vita di Natalia Ginzburg. Diventa a questo punto fondamentale riflettere su quella che è stata la sua vocazione, il suo posto nel mondo: la scrittura, l’attività di scrittrice. Sono le opere di un autore a parlare, molto più dei singoli accadimenti di una vita intera: e le opere di Natalia hanno molto da dire e hanno molto da dirci su di lei, sulla sua famiglia, sui suoi amici, sul suo tempo, sulla società e, più in grande, sugli esseri umani, dei quali è sempre stata acuta osservatrice e sensibile conoscitrice. Scrivere è il suo mestiere, ribadisce lei più volte, apertamente. È l’unica attività che le sia familiare, nella quale riesca a muoversi con padronanza di sé e dei propri strumenti. “Se faccio qualunque altra cosa, se studio una lingua straniera, se mi provo a imparare la storia o la geografia o la stenografia o se mi provo a parlare in pubblico o a lavorare a maglia o a viaggiare, soffro e mi chiedo di continuo come gli altri facciano queste stesse cose, mi pare sempre che ci debba essere un modo giusto di fare queste stesse cose che è noto agli altri e sconosciuto a me. E mi pare d’esser sorda e cieca e ho come una nausea in fondo a me. Quando scrivo invece non penso mai che c’è forse un modo più giusto di cui si servono gli altri scrittori. Non me ne importa niente di come fanno gli altri scrittori” (Le piccole virtù, 1962). Una vocazione di cui Natalia è consapevole sin dall’età di dieci anni, quando già si cimenta nella scrittura di qualche goffa poesia o di qualche stravagante romanzo. Rievocando le sue prime composizioni letterarie, il ricordo si riempie di ironica indulgenza verso quegli acerbi tentativi, ma anche di grande comprensione per gli sforzi compiuti nel cercare uno stile e una voce autentici, che non fossero soltanto copie sbiadite di autori famosi. Ma scrivere è un mestiere difficile e non si può accettare una simile vocazione con superficialità. “Ho scoperto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cattivo segno se non ci si stanca. Uno non può sperare di scrivere qualcosa di serio così alla leggera, come con una mano sola, svolazzando via fresco fresco. Non si può cavarsela così con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro, ci affoga dentro proprio fino agli occhi […]” (Le piccole virtù, 1962). Scrivere è inoltre un mestiere che può costringere a lunghi intervalli e a lunghe attese: periodi della vita in cui sembra impossibile trovare il tempo, le parole, le idee e la concentrazione necessari a buttar giù qualcosa di valido. Natalia lo sa bene, soprattutto se ripensa agli anni in cui ha accudito i suoi bambini piccoli. Ma la vocazione è sempre rimasta lì sullo sfondo, anche se sopita, e Natalia l’ha sempre ritrovata. Scrivere non è un mestiere consolatorio e non corre in aiuto dello scrittore ogni qualvolta egli ne abbia bisogno. Anzi: “Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue dalle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede. Allora anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre. Ma vuol essere lui a comandare e si rifiuta sempre di darci retta quando abbiamo bisogno di lui” (Le piccole virtù, 1962). Eppure Natalia non perde mai la convinzione che scrivere sia il suo mestiere. Ed è questo l’importante, a suo dire: mantenere sempre salda la consapevolezza della scrittura come mestiere della propria vita. Perché scrivere rimane comunque il mestiere più bello del mondo. Natalia, da intellettuale eclettica, ha sperimentato di tutto. Ha scritto romanzi e racconti con storie e personaggi più o meno inventati; ha scritto romanzi e racconti autobiografici, memorie del suo passato; ha scritto articoli di giornale, recensioni, saggi, poesie, commedie teatrali; si è cimentata anche nelle traduzioni di romanzi stranieri. Ci ha regalato riflessioni memorabili sull’educazione dei figli o su cosa significhi invecchiare e credere in Dio. Sentirla raccontare episodi di vita vissuta rimane però, forse, l’esperienza più intensa e toccante che le sue opere possano offrirci. Il linguaggio con cui parla della sua famiglia è un linguaggio che sa di casa. L’intimità quotidiana, fatta di abitudini e modi di dire, di tenerezze e insofferenze, di separazioni e ricongiungimenti, di luoghi abituali e cibi ricorrenti, di piccole manie e debolezze, di severità paterna e indulgenza materna, rivive con una concretezza tale da rendersi presente al lettore come una realtà tangibile, autentica e coinvolgente. Ci si sente membri veri di quella famiglia e, al tempo stesso, ci si accorge di comprendere meglio anche le dinamiche della propria famiglia. Quasi come se la Ginzburg avesse ritratto contemporaneamente la sua famiglia e la famiglia come simbolo universale. Una doppia chiave di lettura, forse scaturita involontariamente dalle sue parole, come spesso accade con le opere d’arte. Ma Natalia ha saputo raccontare con delicatezza e profonda onestà anche le persone che ha amato al di fuori della sua famiglia. Uno degli esempi più straordinari è forse quello dell’amico Cesare Pavese, al quale ha dedicato non solo dei puntuali e perspicaci quadretti (sparsi qua e là all’interno di Lessico famigliare) del suo carattere e dei suoi comportamenti abituali, ma anche e soprattutto le bellissime pagine di Ritratto d’un amico in Le piccole virtù. Le parole di Natalia sono parole che solo un’amica che abbia scrutato in profondità l’animo di Pavese avrebbe potuto scrivere: parole derivanti da una frequentazione abituale, da un affetto autentico e da una grande capacità di penetrazione. Parole di un’amica a un amico, non parole di una scrittrice a un personaggio. E la dolcezza poetica delle immagini con le quali Natalia paragona Pavese alla malinconica città di Torino manifesta perfettamente l’amore disinteressato e la tristezza per il destino dell’amico, pur senza eccessi di sentimentalismo e di melenso compianto, mantenendo sempre quel caratteristico stile di grande sobrietà e sottigliezza, e di modesta eleganza. La si potrebbe dipingere, Natalia, china sulle carte nella semplicità della sua esistenza e nell’austerità della sua persona, o immersa nelle faccende casalinghe dietro un bambino e l’altro, mentre riflette e immagina e ricorda e cerca le sue prossime parole: “Preparavo ancora il sugo di pomodoro e il semolino, ma pensavo intanto a delle cose da scrivere” (Le piccole virtù, 1962).

Testo di Marta Nicoli 

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Traduzioni

  • G. de Maupassant, Una vita, trad. it. di N. Ginzburg, Torino, Einaudi 1994
  • M. Duras, Suzanna Andler, trad. it. di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1987
  • G. Flaubert, La signora Bovary, trad. it di N. Ginzburg (1983), Torino, Einaudi, 2015
  • M. Proust, La strada di Swann, trad. it. di N. Ginzburg (1946), Torino, Einaudi, 1990
  • M. Szymusiak, Il racconto di Peuw, bambina cambogiana, trad. it. di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1986
  • S. Talja, Non mi dimenticare, trad. it. di N. Ginzburg, Torino, Bollati Boringhieri, 1988
  • Vercors, Il silenzio del mare, trad. it. di N. Ginzburg (1945), Roma, Einaudi, 2015

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