Abel incontra Guglielmo e viceversa

Nella prospettiva del dono - di cui ha parlato in maniera acuta e intensa Stefania Marengo - e in cui la direzione sembra essere univoca (il frate neppure sa se il compagno salvato sopravvivrà alla prigionia del campo, ma questa del resto è la forza del dono), sembra difficile costruire un dialogo, seppur irriflesso, fra Guglielmo e Abel. Abel è nato nella testa di Guglielmo. È Guglielmo che lo pensa, lo immagina, lo figura, lo rappresenta in una Cracovia lontana. Sideralmente lontana dalla realtà che lui sta vivendo nel 2011 in una indistinta città del Nord Italia (nulla vieta che potrebbe essere proprio Torino).
E tuttavia i fili si muovono e creano inedite geografie e ricami.
E Abel non è unicamente un uomo che si interroga sull’infausta condizione di una Cracovia vessata, umiliata, occupata, l’unica grande città così straordinariamente vicina al buco nero, ma è anche un uomo che sente, che percepisce, che si mette in gioco a partire dalla propria storia e memoria. Come Guglielmo sente. Sente che qualcosa sta capitando in quell’immonda voragine e che chissà in quale modo lì, proprio lì, si stanno congiungendo, per un disegno incomprensibile, il massimo del Bene con il massimo del Male. Ciò che Guglielmo del resto dirà a Clarissa in uno dei primi incontri con lei.
«Voglio capire, Clarissa, come possano stare insieme il massimo del bene e il massimo del male. È una cosa che mi tormenta».
Dunque Abel, che cresce nel pensiero di Guglielmo, oserà anche lui guardare. E questa forza arriva proprio da Guglielmo e lui l’accetta come un dono. Una mattina, Abel, nel tentativo di scrutare l’oscuro, si recherà nelle vicinanze del buco nero e dall’alto di un caseggiato abbandonato con il binocolo guarderà il campo. Guarderà ciò che in realtà non si vorrebbe e non si dovrebbe vedere. E invece la 'cosa è là'. E sarà proprio questo esercizio a sollecitare in Guglielmo quella che potremmo chiamare 'la poetica dello sguardo', attraverso la quale, a mano a mano che si prosegue nel racconto, emergono dal fondo più atro volti e personaggi. Il frate, prima di tutto, e poi lui, il capo, il cui nome, Edgar, arriva solo alla fine del racconto, quasi a suggellare che anche il mostro ha un nome, perché tutto ha un nome, ed è necessario riconoscerlo e dichiararlo. E poi via via tutti gli altri, fino ad Anita proprio lei che non ha voluto conoscere e 'vedere' proprio lei che si è abbandonata alla corrente, al contrario di Clarissa che invece non teme di sapere. Sapere l’innominabile e comprendere, attraverso l’esperienza di Guglielmo, i tanti e plurali volti che compongono il passato e il presente.

Testo di Graziella Bonansea

Graziella Bonansea è storica e scrittrice. Formatasi a Torino e a Parigi, dove ha perfezionato i suoi studi su Immaginari e Culture contemporanee, membro della Società Italiana delle Storiche, ha pubblicato in Italia e all’estero numerosi saggi sull’immaginario del corpo e della soggettività femminile, sui paesaggi culturali nella visione religiosa valdo-protestante, sulla questione del trauma nell’esperienza delle Guerre Mondiali, su miti e simboli dei totalitarismi moderni e sulla memoria culturale e visuale negli immaginari giovanili.

Ha tenuto corsi di Storia delle donne all’Università del Piemonte Orientale e, dal 2013 al 2018, ha lavorato a una ricerca su Corpi, Memorie e Confini nei nuovi scenari europei promossa dall’European Research Council e che ha fatto capo all’European University Institute di Firenze. Sfidata da nuovi sguardi e linguaggi verso la storia e la memoria alla fine degli anni Novanta si è aperta alla scrittura letteraria. Più che la notte è il suo quinto romanzo.