"Più che la notte": una conversazione con Graziella Bonansea
«Nel dono si costituisce una trinità: chi dà, la cosa data, l'uomo al quale si dà. Dare la cosa significa fare sorgere un rapporto nuovo. Significa creare, inventare. Il dono è invenzione. Significa dare l'universo, quindi affermare l'inessenzialità dell'universo e l'essenzialità dei rapporti fra le coscienze; in una parola, affermare l'uomo come essenziale»
(Jean-Paul Sartre, Quaderni per una morale)
La scrittrice e storica Graziella Bonansea, per Salone OFF, ha presentato alla Biblioteca civica Villa Amoretti, il 15 maggio 2023, il suo quinto romanzo Più che la notte (San Paolo, 2021). Protagonista è Guglielmo, un ragazzo diciannovenne a cui i professori non smettono mai di fare la predica perché a scuola, anziché mettere a frutto la sua sagace acutezza, non riesce a star fermo e 'fa teatro' per far ridere i compagni. Attraverso l’incontro con una persona più grande, Ferdinando, che lo tratta da pari a pari - con un rispetto privo di quella condiscendenza con cui a volte si trattano i giovani - arriva a conoscere un evento drammatico della storia europea: la vicenda di un frate francescano, Massimiliano Maria Kolbe che, imprigionato ad Auschwitz nel maggio del 1941, proprio in quel «buco nero» vive in una dimensione ultraterrena - «già slacciato dalle cose di questo mondo» - e salva la vita ad un compagno sconosciuto, Franciszek Gajowniczek, accettando al posto suo l’orribile morte per fame e sete. Dopo quattordici giorni di agonia Kolbe verrà assassinato con un'iniezione di acido fenico. L’artefice di questa malvagità tanto gratuita (sul tema si confronti il capitolo Violenza inutile ne I sommersi e i salvati di Primo Levi e il testo del filosofo Vladimir Janhélévitch, Perdonare), in cui la morte si prolunga nella tortura della sete, nel libro è Edgar, una delle SS che comandano Auschwitz, luogo immondo della storia e mai nominato nel testo, se non attraverso la metafora. Con Guglielmo siamo nel 2011 ma, superando una barriera storica e temporale, la prospettiva si sdoppia, ed il ragazzo si trova a guardarsi vivere a Cracovia, nel 1941, nei panni di Abel, un architetto trentanovenne che ha aiutato Anita, la moglie del feroce Edgar, a comprare casa, proprio a Cracovia. Nessuno minimizza le sue visioni: nonna Zinia gli dice espressamente che non sono allucinazioni ma solo un modo per guardare i fatti del passato; anche Clarissa, una ragazza di un anno più grande, figlia di amici di famiglia - a cui Guglielmo sente la necessità di confidare quel che gli sta capitando - commenta che non è da tutti vivere in modo tanto febbrile e intenso una situazione come questa; e così è anche per Ferdinando, da cui tutto è partito. «Neanche un dubbio li sfiora, neanche una diffidenza».
Un libro controcorrente dunque, per tematica e per stile di scrittura, in cui prevale la paratassi, con periodi fondati su frasi brevi e proposizioni sullo stesso piano sintattico: una scrittura biblica, solenne, mimetica, che si adatta ad un tema altrettanto alto. Il libro ha una sua ordinata architettura: è suddiviso in due parti e in tredici capitoli suddivisi a loro volta in sottocapitoli brevi. I capitoli sono tredici e scandiscono i giorni dell’agonia del frate e dei suoi compagni, che invece saranno quattordici come le stazioni della Via Crucis. Manca l’ultimo capitolo, il quattordicesimo: lo sguardo della scrittrice non può e non vuole soffermarsi sul corpo senza vita del santo, che non avrà sepoltura (sarà bruciato e le ceneri disperse) e, dunque, si sporge sulle cose del mondo senza la pretesa di esaurirle attraverso la scrittura; lo scriverne apre solo un varco «per donare passaggio» (Nadia Fusini, Nomi).
Tutti gli ex deportati, compreso Primo Levi, hanno raccontato dell’odore nauseabondo presente ad Auschwitz. Martin Amis in un controverso romanzo del 2014, La zona d’interesse, fa dire al comandante del campo: «Se quella che stiamo facendo è una cosa buona, perché ha un odore così pervicacemente cattivo?». In Più che la notte, al fetore del campo si contrappone il profumo che invade il piazzale al momento del gesto del frate, profumo che percepisce il capo e che sente Anita, la moglie del capo, a trenta chilometri di distanza. Le rose sono simbolo mariano ma anche simbolo del martirio e, nella tradizione agiografica, il loro profumo indica la presenza dei santi: «la fragranza delle rose inebria un posto di morti» - scrive Bonansea - e sovverte l’ordine terreno del campo, riportandoci a quella «mescolanza di orrore e bellezza» di cui scrive Simone de Beauvoir dopo la visione del film di Claude Lanzmann (Prefazione di Simone de Beauvoir a Shoah).
In Più che la notte il tema della morte per fame e sete si giustappone a quello del cibo: da un lato ci sono i quattordici giorni di martirio, una lentissima morte che porta via - a Kolbe e ai suoi sfortunati compagni - anche la possibilità delle lacrime, riducendo la preghiera comune - guidata dal frate - ad un lieve sussurro; dall’altro il cibo è invece costantemente presente nelle pagine in cui viene raccontata la contemporaneità di Guglielmo. Ci sono, in particolare, tre situazioni in cui il cibo si manifesta in questo testo: la forzata assenza di cibo e di acqua patita dal frate e dagli altri deportati; il cibo buono e nutriente, fonte di convivialità, consumato da Guglielmo e dai suoi amici; lo stomaco bruciante del capo - non più in grado di nutrirsi - perché nessuno «sopravvive ad un ordine come questo. E non solo le vittime. [...] È il cuore della terra che si ribella».
Anita, la moglie del capo, è una donna che ha ceduto e si è arresa al marito, «ha ben chiaro che nel buco nero ci sono bambini che vanno a morire», ma una parte di lei non si sveglia al mattino «come se prendesse il laudano». Simile a tante donne del presente, succubi di dipendenze amorose nefaste, Anita prende man mano coscienza che non sarà possibile dimenticare tutto e che il buco nero rimarrà davanti a lei come un monito perenne. É una vittima ma non una vera vittima: c’è qui il tema manzoniano, tanto caro a Primo Levi, del contagio del male: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi» (capitolo secondo de I promessi sposi). E d'altra parte anche Bonansea fa ricordare proprio ad Edgar il famoso confronto fra don Rodrigo e fra Cristoforo: il «Verrà un giorno...» di fra Cristoforo che lascia don Rodrigo alle prese con «un lontano e misterioso spavento» (capitolo sesto de I promessi sposi). L’acquisto della casa (a Cracovia, dove invece il marito avrebbe potuto requisirla) rappresenta per Anita una svolta, non tanto per l’incontro con l’architetto Abel ma, soprattutto, per il significato simbolico di una riacquistata autonomia: una casa non per il presente ma per il futuro, per il tempo che verrà.
Nella vicenda di Kolbe si rappresenta una visione del mondo in cui è centrale la rivelazione cristiana; il gesto del santo si riverbera e risuona nell'intelligenza sorgiva di Guglielmo e lo induce ad indagare più a fondo il senso dell’esistenza ed il proprio orientamento nel mondo. Il dono estremo di Kolbe potrebbe altrimenti rischiare di rimanere un esempio eccelso ma non praticabile, e dunque inaccessibile; Monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, nella prefazione al libro scrive: «Un uomo osa morire di fame e di sete in sostituzione di un altro» e poche righe più avanti aggiunge «Sembra pazzia pura», facendo riferimento alla paolina follia della croce. Possiamo chiederci se il sacrificio di Kolbe sarebbe stato possibile senza la sua assoluta fiducia in Dio e se ideali di giustizia potrebbero ugualmente sorreggere una scelta laica: a questo proposito ricordiamo, fra tutti, Luciano Bolis, il partigiano Fabio, che sottoposto ad atroci torture, decise di sacrificare la propria vita per non mettere a repentaglio quella dei compagni e si recise le corde vocali. In Il mio granello di sabbia (1946) Bolis racconta il tormento di quei momenti, in cui oscillava fra il naturale istinto di sopravvivenza e gli imperativi etici, che imponevano lealtà e rispetto verso l’esistenza degli altri.
All'interno di una visione mercantile, che spesso domina i rapporti interpersonali, il dono vero - un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà e che non chiede restituzione - sembra essere inattuale. Donare la propria vita è un po’ come donare gli organi, entrambi sono gesti che non rispondono alla logica dello scambio utilitaristico: non c’è possibilità di ricambiare il favore, un debito simbolico resta sospeso e non potrà mai essere risarcito. Così il dono diventa «un offrire, un passare senza scambio o con la speranza di ottenere qualcosa in cambio» scrive il biologo e filosofo cileno Francisco Varela nell'articolo Distanze intime (in «Psiche. Rivista di cultura psicoanalitica», anno XI, numero 1, maggio 2003), facendo diretta esperienza di un trapianto di fegato. L’offerta di sé è a fondo perduto: d'altra parte donare se stessi significa non solo donare ciò che si ha ma anche ciò che si è.
Molto interessante, perché rappresenta una prospettiva diversa, è l’episodio dell'architetto Abel che decide di andare a vedere Auschwitz. Ma la visione è talmente terribile che la vedrà solo attraverso lo schermo del binocolo, da lontano: «... la presa sfugge. Ho paura di vedere, ho paura di capire. Anch'io come tutti. non sono diverso dagli altri. Dunque!». Sappiamo che, in alcuni casi, la popolazione civile, residente vicino ai campi di sterminio, trasse vantaggio dall’esistenza dei lager e, nella maggior parte dei casi, cercò di non vedere; nella Prefazione a Shoah di Claude Lanzmann, Simone de Beauvoir fa riferimento alle «tranquille fattorie dalle quali i contadini polacchi potevano udire e anche vedere ciò che succedeva nei campi di sterminio».
C'è un'ultima domanda che avremmo voluto porre all'autrice e che trova ora il suo spazio fra queste righe, ovvero se il rapporto fra Guglielmo e Abel possa dirsi biunivoco, interdipendente: Guglielmo si sdoppia in Abel e si «ritrova là» ma Abel, da laggiù, può avvertire la presenza di Guglielmo?
Testo di Stefania Marengo (Biblioteche civiche torinesi)
La risposta di Graziella Bonansea.
Nel catalogo BCT: Sul tema del dono. Etica, filosofia e pratica.
La registrazione dell'incontro con Graziella Bonansea è avvenuta a cura delle Biblioteche civiche torinesi. Il video è stato pubblicato sul canale YouTube delle BCT. L'evento si è svolto in collaborazione con Libreria Essai.