Laura Forti a Leggermente, 6 Novembre 2024
Nell'ambito del progetto Leggermente, la scrittrice e drammaturga Laura Forti ha presentato La figlia inutile (Guanda, 2024), in dialogo con il Gruppo di lettura Villa Amoretti e LeggiAmo | Letture condivise a KM0, alla Biblioteca civica Villa Amoretti.
L’urgenza di indagare il passato scaturisce in Forti dalla percezione di un legame tra sé e la nonna materna, Elena Dresner, rivelante sia consonanza che dissonanza, «come una radio che a volte trova la giusta frequenza d’onda e a volte no»: la nonna era stata privata per anni dell’affetto familiare poiché i suoi genitori, dapprima esuli in Francia, dopo il pogrom di Kishinev, nel 1912 si erano poi diretti in Italia con gli altri due figli, lasciandola indietro, a Nancy, con i cugini e la balia cattolica. Per circa quattro anni la famiglia non si era ricongiunta: forse la situazione era troppo complicata e non sarebbero riusciti a prendersi cura di tre bambini e contemporaneamente a lavorare ma cercare di razionalizzare non ripara certo il danno psichico del non essere cresciuti dai propri genitori. In ogni caso la nonna «si era adattata, reinventandosi tenacemente un’appartenenza» e aveva vissuto il ritorno nel nucleo familiare «come un rapimento, uno strappo», come un’ulteriore perdita. L’interesse della scrittrice per il tema del sacrificio dei propri affetti, in nome di un futuro migliore, si era già reso evidente con il testo teatrale La Badante. Una storia di fantasmi, in cui si indagava appunto il fenomeno delle badanti che lasciano la propria famiglia, spesso anche i figli, per occuparsi di altre famiglie, deprivando così la propria stessa esistenza e la propria identità.
Il Gruppo di lettura Villa Amoretti ha messo in rilievo come l’autrice - indagando le proprie origini familiari e raccontando la storia della sua famiglia di esuli ebraici in fuga dai pogrom della Russia Bianca, e poi dalle leggi razziali e dalla Shoah - ripercorra l’intero nostro Novecento. Come sottolinea Nadine Gordimer in Scrivere ed essere: «Se si vogliono conoscere gli avvenimenti della ritirata da Mosca del 1815, si può leggere un libro di storia; se si vuole sapere che cos’è la guerra e come è stata vissuta personalmente da uomini e donne di un dato tempo e con un certo passato, bisogna leggere Guerra e pace».
Le parti storiche del libro di Forti si intrecciano con le esperienze personali degli ascendenti della scrittrice e - come sottolineato dalla stessa Forti durante la presentazione del libro alla Biblioteca civica Villa Amoretti - la vita del bisnonno Giulio, ruba ben presto la scena a quella della nonna Elena. Nato Szaja Zamwel Drezner, da padre rabbino, nel 1885 a Kolbiel, a Sudest di Varsavia, ripara giovanissimo in Francia con la consorte Rojze, dopo aver vissuto il trauma del pogrom di Kishinev del 1903 ed essersi opposto allo zar; divenuto Jules Dresner, contabile in una fabbrica tessile, arriva in Italia alla ricerca di un’integrazione migliore; qui, mutando ancora nome in Giulio Dreneri, intraprende un percorso professionale faticosissimo ma prestigioso che, da addetto al portafoglio estero del Credito italiano, lo porterà poi a rivestire la carica di vicedirettore. Con la promulgazione, nel 1938, delle leggi razziali perderà nuovamente ogni cosa e diverrà apolide (non si può non menzionare la riflessione di Hannah Arendt sull'apolidia contenuta nel saggio Le origini del totalitarismo, dove viene messo in luce come gli apolidi, privati della cittadinanza, finiscano con il perdere non solo la loro identità giuridica e sociale, ma anche quella di esseri umani); il bisnonno Giulio fuggirà quindi in Cile, ultima tappa del suo perenne camaleontismo, dove prenderà il nome di Julio, convertendosi al cattolicesimo e dove resterà fino al 1971, anno della sua morte.
All’interno del gruppo di lettura abbiamo riflettuto su come ogni cambiamento di nome e identità, rifletta la necessità di adattarsi alle circostanze e alle pressioni esterne. L’adesione al fascismo di Giulio, nel 1934, tardiva e riluttante, che ebbe poi come conseguenza, nel 1936, la richiesta di far parte della Milizia volontaria (un obbligo per tutti gli iscritti) rappresenta il tentativo inevitabile di salvaguardare la propria famiglia in un contesto sempre più ostile. La descrizione della figura di Giulio come quella di uno dei tanti «fascisti fantasma», disimpegnati nel concreto, si connette ad un atteggiamento opportunistico dettato dalla paura e dalla necessità di protezione, che si allontana dalle categorie nette di giusto o sbagliato. Sospendendo il giudizio, siamo costretti a riconoscere che perlopiù le persone sono spesso un amalgama di esperienze, ideali e adattamenti, piuttosto che incarnazioni di un credo assoluto. La vita di Giulio appare delineare un processo intrinsecamente umano, che si manifesta in scelte difficili, sacrifici e compromessi, azioni che possono sembrare contraddittorie ma che non possono suscitare il biasimo, tuttalpiù indurre ad affrontare il passato - quello proprio e quello altrui - con onestà e rispetto.
Nel testo di Laura Forti sono di particolare rilevanza le pagine dedicate al IV Convegno Giovanile Ebraico di Livorno del 1924, che rappresentò un momento cruciale nella storia dell'ebraismo italiano e fu segnato dalla partecipazione di figure di spicco che riflettevano diverse correnti e idee. Nello Rosselli in particolare, uno dei più brillanti allievi di Gaetano Salvemini e insieme con Salvemini fra i primi oppositori al fascismo, esprimeva con anticonformismo la propria matrice ebraica e una spiccata concezione religiosa della vita. Le sue parole risuonano come un inno alla complessità dell'essere ebreo in un contesto di assimilazione e di sfide identitarie: «Io sono un ebreo che non va al tempio di sabato, che non conosce l’ebraico, che non osserva alcuna pratica di culto […] eppure io tengo al mio ebraismo e voglio tutelarlo […] Mi dico ebreo perché [....] ho vivissimo in me il senso della mia responsabilità personale, [...] perché considero con ebraica severità il compito della nostra vita terrena, e con ebraica serenità il mistero dell’oltre tomba - perché amo tutti gli uomini, come in Israele si comanda di amare, come anzi in Israele non si può non amare». In un momento in cui il sionismo si stava diffondendo in tutta Europa, Nello Rosselli vedeva invece nell'Italia la sua patria legittima e nell'ebraismo una sorta di religione della libertà (cfr. Nello Rosselli, Uno storico sotto il fascismo. Lettere e scritti vari, 1924-1937).
Il bisnonno Giulio - che invece era un sionista attivo e contribuiva economicamente alla causa israeliana, inviando denaro in Israele per acquistare appezzamenti di terreno, tramite il Fondo Nazionale Ebraico - non sembrò mai effettivamente intenzionato a trasferirsi in Israele. La richiesta, nel 1926, della cittadinanza italiana, cui seguì la rinuncia a quella polacca, sembra riflettere invece il desiderio di abbracciare una nuova identità pur di evitare la condizione del «limbo dell’esilio». Ma dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938, non fidandosi - pare - neppure delle rassicurazioni di Mussolini in persona, lui - che aveva conosciuto i pogrom - non si fece cogliere impreparato e la Questura di Milano fu costretta ad archiviare la pratica trovando la casa vuota: la famiglia Dreneri si era come volatilizzata. Il bisnonno Giulio ancora una volta aveva dato prova della sua astuta lungimiranza ed era fuggito in Cile: «Dissolto in una nuvoletta, come un mago in un gioco di prestigio. Apparizione, inchino, sparizione».
Solo la nonna dell’autrice rimase in Italia con le sue figlie ad affrontare una vita da clandestini (anche il marito la lasciò da sola perché decise di nascondersi con gli anziani genitori). La madre di Laura Forti, a soli quindici anni, sfollata a Grosseto, diventò una staffetta partigiana (come viene raccontato in uno dei libri precedenti di Forti, Forse mio padre, edito da Giuntina nel 2021).
Il tema della trasmissione transgenerazionale del trauma, delle persecuzioni e del terrore assorbiti «con il latte materno» è spesso presente nel testo di Forti ma mai in maniera deterministica. L'idea che gli eventi traumatici, vissuti da una generazione, possano lasciare un segno in quelle successive, ha portato a riflettere, all’interno del gruppo di lettura, non solo sulle impronte emotive e culturali ma anche - eventualmente - su quelle biologiche. L’epigenetica sembra confermare che - attraverso processi biochimici - le situazioni ambientali possano influenzare l’espressione genica senza modificare le sequenze inscritte nel DNA e quindi che i traumi si possano trasmettere come una sorta di memoria biologica. Questa 'impronta' non predetermina in modo rigidamente causale, ma crea una predisposizione che può manifestarsi in modi diversi: quel che è certo è che, per Forti, scrivere diventa un atto di liberazione, un modo «per spezzare le catene generazionali». La penna si trasforma in una terapia, un mezzo attraverso il quale riscrivere la narrativa familiare e, forse, alterare il corso di ciò che è stato ereditato, sia che esso abbia una provenienza biologica ed epigenetica o meramente educativa e relazionale. La scrittura offre l'opportunità di esplorare non solo la propria storia, ma anche quella della propria famiglia, creando un ponte temporale che può portare, finalmente, a una liberazione dal peso del passato.
La scrittura aiuta a rielaborare il passato traumatico ma - sia chiaro - è un processo faticoso: «Non è una visita asettica, neutra, al museo dei ricordi» scrive Forti. La scrittrice fa toccare con mano, nel suo svolgersi, il procedere all’interno delle memorie familiari, con tutte le oscillazioni, i ripensamenti, le fatiche e qualche impasse. Lo stallo a volte si supera anche con l’aiuto di un’altra opera letteraria, che dà «un calcio in avanti a quello che si sta scrivendo»: nel caso di Forti il riferimento è a uno dei capolavori di Philip Roth, Patrimonio, il racconto degli ultimi mesi di vita del padre dell’autore che si conclude con la frase: «Non devi dimenticare nulla».
Il Gdl LeggiAmo ha invece indirizzato la riflessione sul ruolo del segreto nelle dinamiche familiari. Per parlare di questo argomento bisogna intanto distinguere tra segretezza e segreto. Certamente la segretezza - intesa come riserbo e discrezione - va sempre tutelata perché il Sé esige uno spazio privato in cui esprimersi. I segreti in quanto tali invece, specie se riguardano altre persone, possono generare asimmetrie nelle relazioni, creando una sorta di potere unilaterale e, talvolta, una sensazione di tradimento quando le informazioni tenute nascoste vengono scoperte. Se un segreto può rimettere in discussione tutte le relazioni esistenti, bisogna rivelarlo o tacere? si è chiesto il GdL Leggiamo. Non esiste una risposta uniforme alla domanda: la decisione dipende dal contesto, dalle sue implicazioni e dalle persone coinvolte. Secondo l’autrice un dialogo aperto, anche se difficile, avrebbe rappresentato - per se stessa - la strada migliore per affrontare questioni familiari tanto delicate e complesse.
Laura Forti segnala il letto come «luogo centrale» del suo rapporto con la nonna. Dal GdL Leggiamo arrivano alcune suggestioni su questo aspetto, legate a ricordi personali e a rituali familiari. Il silenzio è ambivalente nei suoi significati, può celare segreti ma anche essere uno spazio di silenzioso affetto, un rifugio per dolori inesprimibili, un manto che avvolge emozioni complesse. Non tutto risulta essere dicibile, ci sono sofferenze profonde che hanno a che fare con il 'non detto', addirittura con il 'non pensato', che si esprimono solo attraverso una silenziosa comprensione. «Un varco aperto nell’infelicità e nella confusione, una mano caritatevole tesa, una carezza che ridona speranza. [...] Quel sentire a cui non riuscivo a dare un nome, come una parola-medusa che mi fluttuava nella testa, forse era affetto» scrive infine Forti.
Rispetto al tema dell’essere figli inutili, che dà il titolo al libro, in realtà possiamo affermare che anche il suo contrario, l’utilità di un figlio o di una figlia, stride con la genitorialità. Una figlia o un figlio possono anche essere estremamente utili, ma davvero non sappiamo quale sia la condanna peggiore perché il destino dei 'figli progetto', dei figli funzionali, dei figli che diventano genitore vicario, non pare meno triste di quello dei figli inutili, anzi forse proprio i figli inutili conservano un margine di libertà maggiore.
Forti afferma che tanti lati del carattere della nonna Elena «restano enigmatici» e di avvertire «il limite frustrante di non essere riuscita a capirla in pieno, di non aver potuto far parte del suo mondo interiore, di non aver fatto le domande giuste quando era viva». Ma forse l’alterità ci sfugge sempre e sempre rimane per noi un mistero: aver contezza che l’altro sia inconoscibile, non è forse la forma più alta di rispetto che possa esserci?
«Forse l’unico atto sensato è quello di consegnare la nonna alle onde della lettura, in modo che siano proprio dei perfetti estranei a diventarne i familiari, a scegliere cosa di questa storia sia utile per loro e cosa no. In fondo è per questo motivo che si scrive, per quella bellissima sensazione di far parte per un paio d’ore della vita degli altri». Attraverso la scrittura Laura Forti stana i fantasmi, ricostituisce i corpi e sparge le ceneri per poi affidarle ai lettori, in un circolo virtuoso di cura, ricostruzione e rielaborazione.
Testo di Stefania Marengo (Biblioteche civiche torinesi), in collaborazione con Luisella Nuovo (LeggiAmo | Letture condivise a KM0)
La registrazione dell'incontro con Laura Forti è avvenuta a cura delle Biblioteche civiche torinesi; il video è stato pubblicato sul canale YouTube delle BCT.
Evento in collaborazione con Libreria Gulliver.