Giulia di Barolo: l'impegno di una donna per le donne

Juliette Colbert di Maulévrier, moglie del Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo

a cura di Angelo Toppino

Introduzione di Paolo Galli
Parte dell’opera di beneficenza di Giulietta Falletti di Barolo, nata Colbert di Maulevrier, si rivolse a favore delle carcerate: l’opera della Marchesa nelle carceri femminili (Senatorie, del Correzionale, delle Torri) iniziò gradualmente a partire dal 1814.
Giulia di Barolo si basò su due punti fondamentali: migliorare l’esistenza fisica delle carcerate, con un trattamento più umano e un maggior rispetto delle esigenze dell’igiene, e migliorarne l’esistenza morale specialmente con l’istruzione religiosa, che impartiva essa stessa, coadiuvata in seguito da altre dame, con l’introduzione dei cappellani nelle carceri e con il lavoro, che considerava essenziale per un reale recupero, e il cui prodotto essa stessa si incaricava di ritirare per la vendita.
Con dispaccio ministeriale del 30 ottobre 1821 fu messo a disposizione della Marchesa il carcere delle Forzate, perché lo organizzasse come meglio riteneva; ella vi trasferì le detenute delle altre tre carceri e, introducendovi le suore di San Giuseppe provenienti da Chambery, lo organizzò come un istituto di pena modello. Il regolamento interno fu discusso punto per punto dalla Marchesa con le detenute e approvato con il consenso unanime.
Per poter continuare ad assistere le sue protette anche dopo la scarcerazione Giulia di Barolo creò altre due istituzioni, ispirandosi ad analoghe fondazioni parigine del XVIII secolo ripristinate ad opera dell’abate Legris-Duval, suo conoscente.
L’istituto del rifugio, approvato nel 1823, era aperto alle ex carcerate e alle donne traviate e penitenti che volontariamente ne chiedessero l’ammissione. Qui trascorrevano due-tre anni di lavoro e di preghiera e ne uscivano infine per sposarsi, andare a servizio in qualche famiglia o lavorare.
Nel 1833 la Marchesa, su istanza di alcune ricoverate del rifugio, creò ancora l’attiguo Monastero delle Maddalene per accogliervi coloro fra le convertite che avevano espresso il desiderio di dedicarsi a vita monastica e penitente in stato di clausura, per espiazione delle colpe del passato.
Contemporaneamente aprì l’opera di correzione e di educazione di un notevole numero di fanciulle al di sotto dei dodici anni, già cadute nel vizio per colpa di gente perversa e talora dei propri parenti, chiamate Maddalenine.

La Torino di Giulia di Barolo, 1814-1864

La Torino di Giulia di Barolo è città di istituzioni nuove per il controllo e la repressione del crimine:

Carabinieri Reali (1814);
Correzionale delle Prostitute e l'Ospizio Celtico (1836);
Educatorio del Buon Pastore (1840);
Amministrazione di Pubblica Sicurezza (1848);
Guardie di Sicurezza Pubblica (1852);
Corte di Appello (1848);
Corte di Cassazione (1847);
Ufficio Sanitario per il controllo della prostituzione (1860);
Corte di Assise (1861);
vari provvedimenti di riforma delle carceri.

La Torino di Giulia di Barolo è anche la città dove operano i santi sociali e dove sorgono altre iniziative assistenziali private a carattere religioso.

San Giuseppe Benedetto Cottolengo (Bra, 1786 - Torino, 1842);
San Giuseppe Cafasso (Castelnuovo d’Asti, oggi Don Bosco, 1811 - Torino, 1860);
San Giovanni Bosco (Castelnuovo d’Asti, 1815 - Torino, 1888);
San Leonardo Murialdo (Torino, 1828-1900).
Beato Francesco Faà di Bruno (Alessandria, 1825 - Torino, 1888).

Don Giovanni Cocchi fonda nel 1840 in borgo Vanchiglia l’Oratorio dell’Angelo Custode, il primo oratorio sorto a Torino, e nel 1849 pone le basi dell'Istituto per gli Artigianelli.
Il teologo Gaspare Saccarelli nel 1850 apre l’Oratorio femminile e la Scuola domenicale in borgo San Donato e, nel 1853, dà vita all'Istituto della Sacra Famiglia (ritiro, asilo, oratorio).

I due volti di Torino capitale

Nella Torino capitale di Giulia di Barolo convivono due mondi diversi, più estranei che ostili.
Una parte di Torino presenta edifici regolari, strade spaziose e pulite, passeggi ameni, comodi e bellissimi portici, magnifici caffè. Personaggi come Cavour e d'Azeglio passeggiano sotto i portici di via Po, ma non raggiungono il malfamato quartiere del Moschino.
I torinesi che si incontrano al Caffè Fiorio e discutono di economia e di scienze sociali, oppure frequentano l'aristocratico Caffè San Carlo, il Vassallo o il Madera, abbonato a ben 110 giornali, non entrano nelle numerose e assai frequentate bettole disseminate in tutta la città.
Borghesi e aristocratici evitano ampie zone della città, dove la stessa polizia non si reca volentieri.
Nel Moschino, in Vanchiglia, in borgo Dora, nel reticolo di viuzze intorno al Municipio e alla piazza Palazzo di Città vive ammassata la popolazione più povera e numerosa. Il degrado sociale e ambientale di vaste zone del centro urbano è presente non soltanto a Torino ma in tutte le città europee.
Quando, nel 1848, Torino diviene capitale di un regno costituzionale, conta 136.849 abitanti, spesso inurbati di recente alla ricerca di un’occupazione anche precaria o del sostegno della carità. Una parte cospicua di essi conserva mentalità e abitudini contadine, è sottoalimentata, analfabeta, dalla vita breve e stentata, fatta di espedienti, accattonaggio, prostituzione e di una miriade di piccoli reati.

La criminalità in Torino capitale

Torino è la capitale di un piccolo regno e presenta una criminalità più pericolosa per l’ordine pubblico che per l’assetto sociale e istituzionale. In altre città europee già segnate dalla rivoluzione industriale la criminalità assume, invece, connotazioni più eversive che la fanno considerare una minaccia dai ceti dirigenti.
Torino è piena di miserabili e di diseredati, che cercano di tirare avanti con ogni mezzo, costretti a vivere tra illegalità e piccoli furti: col crimine si cerca di soddisfare un bisogno immediato, non di arricchirsi rapidamente. Prevalgono i reati contro i beni e il furto è il reato più diffuso tra i condannati, sia uomini che donne.
Questa criminalità è causata dalla miseria e dallo sradicamento, caratteristici nelle società di antico regime.

L'immigrazione in Torino capitale

I devianti sono di Torino, oppure provengono da varie aree del Regno di Sardegna (Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria, Sardegna, Savoia), qualcuno proviene da altri stati italiani e dall'estero. Torino capitale non offre immediate possibilità di lavoro, ma attira comunque uomini e donne, immigrati da regioni povere nella speranza di maggiori possibilità di sostentamento anche col ricorso a enti di assistenza e di carità.
Questi immigrati appaiono più esposti alla devianza, perché a Torino spesso sono privi di una dimora fissa e non possono usufruire della solidarietà familiare o di vicinato.

La criminalità femminile

Ai tempi di Giulia di Barolo la criminalità di Torino è ancora quella delle città preindustriali: il furto è il reato più frequente commesso dalle donne. Fra le condannate è significativa la presenza di domestiche, serve, cuoche, che hanno maggiori opportunità di rubare oggetti personali ai loro datori di lavoro.
Margherita Pollino (1842) nella chiesa Metropolitana ruba le elemosine dagli scodellini posti davanti ad un crocefisso, mentre fingeva di pregare.
Catterina Aimo (1816) uccide la suocera del suo amante.
Elisabetta Pani (1820), nubile, è denominata l'infanticida del Lingotto.
Anche le donne commettono delitti spinte dall’indigenza e agiscono da sole oppure con la complicità di mariti e amanti; spesso i crimini più gravi sono commessi con la complicità di un uomo.
I reati contro la morale sono rappresentati dalle pessime qualità personali e dalla pratica disonesta e adulterina, che coinvolgono sia uomini che donne.
Alcune donne commettono reati contro la persona, cioè ferimenti, percosse, omicidi, tra cui l'infanticidio.

La prostituzione

Il controllo della prostituzione, affidato alla polizia cittadina del Vicariato, oscilla tra esemplari castighi che ne sottolineano le negative valenze morali, provvedimenti di regolamentazione del fenomeno, come schedatura e visita medica settimanale obbligatoria, e progetti di riunione delle donne in siti considerati non scandalosi e idonei ai controlli di polizia.
Al vecchio Ospedale del Martinetto si unisce un correzionale per donne di malaffare alla Generala e, dal 1836, il Correzionale delle Prostitute e l’Ospizio Celtico, al di fuori di Porta Nuova.
Con l’abolizione del Vicariato nel 1848, una commissione municipale elabora una serie di proposte, che nel 1857 portano ad un Regolamento sulla prostituzione.
Un decreto ministeriale del 15 febbraio 1860 stabilisce un Ufficio Sanitario, alle dipendenze della questura e incaricato della sorveglianza della prostituzione. L’ufficio è situato in via Mascara n. 9 (via Conte Verde, nel tratto compreso tra via Tasso e via della Basilica).

Le condannate

L’intero sistema punitivo piemontese appare, prima del 1848, ancora fortemente permeato dallo spirito di “esemplarità” che faceva preferire pene infamanti come la galera con esemplarità, la catena con esemplarità, i lavori forzati, la pubblica emenda ecc. che colpiscono soprattutto gli uomini.
Le donne sono di solito condannate al carcere, che in Piemonte non rappresenta ancora la forma prevalente di punizione, come avviene in altre nazioni già industrializzate.
È notevolmente limitato il numero di donne condannate a morte, sempre coinvolte in reati associati ad episodi di adulterio: infanticidio o omicidio del consorte in complicità dell’amante.

Silvio Pellico (1789-1845)

Dopo il periodo di reclusione per motivi politici allo Spielberg, Silvio Pellico arrivò a Torino e fu ospitato in via Barbaroux 20, in quello che si chiamava Palazzo Giriodi di Panissera.
In questo stabile la madre gestiva una scuola privata.
Grazie alle insistenze dell’Abate Giordani, in questa casa, Silvio Pellico scrisse Le mie prigioni.
Successivamente si trasferì a Palazzo Barolo, diventando il bibliotecario di casa Barolo. Grazie alla profonda conoscenza della vita della Marchesa, Silvio Pellico, scrisse un importante libro, poi apparso postumo, sull’attività di Giulia di Barolo: La Marchesa di Barolo nata Colbert (Torino, Marietti, 1864).
Questo libro ci accompagnerà alla scoperta delle attività di una nobildonna dell’Ottocento a favore delle donne emarginate e delle più povere.

L'incontro di Giulia di Barolo con il carcere

Un giorno, nell’ottava di Pasqua, ella incontrò la Processione della Parrocchia di Sant’Agostino: veniva portando il SS. Sacramento agli ammalati. La Marchesa si inginocchiò, e mentre udivasi il canto della processione, una voce uscita da luogo chiuso gridò: ‘Non il viatico vorrei, ma la minestra’.
Turbata da quelle audaci parole, la Marchesa alzò gli occhi, vide le sbarre carcerarie del Senato, e propose al servo che l’accompagnava d’entrare seco in prigione. Ella volea dare il denaro che aveva nella borsa, pensando che la fame avesse spinto il furioso grido; sperava così di torgli la tentazione di una nuova insolenza.
Il prigioniero non era affamato, ma empio; altri stavano chiusi nella stessa buia e fetida carcere
l’avvicinarsi di lei li colpì e si frenarono e non l’importunarono più”.
(Silvio Pellico, La Marchesa di Barolo nata Colbert, pp. 6-7)

Confraternita della Misericordia, via Barbaroux (dal 1578)

Informatasi in qual maniera potesse aver adito nelle prigioni, taluno le disse di farsi porre nella Confraternita della Misericordia, antica associazione istituita pel sollievo delle detenute si fece iscrivere in quella Compagnia e cominciò a distribuire le minestre ...

La Confraternita della Misericordia dal 1578 aveva iniziato a seguire i carcerati dando loro qualcosa per sopravvivere: vestiti e minestre calde per gli ammalati.

La signora Geri

Nel suo infaticabile lavoro Giulia di Barolo ebbe un validissimo aiuto dalla signora Geri, che provvedeva a distribuire vestiti alle carcerate che non avevano abiti per il freddo e per cambiarsi.
[Giulia di Barolo] comperò camicie, lenzuola e fazzoletti, e ne affidò la cura a una buona persona, le signora Geri, moglie del professor Geri. Questa veniva una volta la settimana a distribuire e ricevere la biancheria Si somministravano anche vestimenta alle più miserabili, procacciando ognora di sollevare maggiormente le più inclinate a emendarsi. La prigione venne cangiando d’aspetto, e le abitatrici acquistarono decenza e calma.
La Marchesa continuava a non aver altre signore che l’aiutassero fuorchè la mentovata Geri, la quale distribuiva la biancheria
.
(Silvio Pellico, op. cit., pp. 33-34)

Carceri criminali, via S. Domenico 13 (dal '500)

queste misere non aveano altra luce né aria fuorchè da altissime aperture, sino alle quali non potevano elevarsi.
Vi erano tante celle quanti pagliericci la capacità del suolo poteva contenere; le divideva uno stretto andito, e quest’unico luogo, ove prendessero qualche esercizio, veniva in più parti attraversato da grosse chiavi di ferro atte a sostenere i muri, impicciando assai il camminare. Nel corso di un anno e mezzo vi furono due braccia rotte e un piede slogato per cadute su quelle sbarre di ferro.
Le detenute
erano appena vestite, parecchie non avevano cenci bastanti a coprirsi, e niuna vergogna mostravano della loro nudità Le si gettarono vicino gridando insieme, e le destarono compassione ed orrore …
(Silvio Pellico, op. cit., pp. 8-9)

Le carceri delle Torri, Porte Palatine (dal 1724)

Esisteva in Torino una terza prigione muliebre per quelle il cui delitto era la sola mala condotta: la Marchesa fu pure chiamata colà. Vi andò due volte sole. Ivi le detenute ricevevano soccorsi di religione amministrati con carità Quella prigione era composta di due celle tonde assai oscure; la mancanza di luce interdiceva le occupazioni, e non potea quindi introdursi né scuola di lettura né lavoro.
(Silvio Pellico, op. cit., p. 28)

Carcere correzionale, via Stampatori (dal 1802)

andò al Correzionale. Questa prigione era assai diversa da quella del Senato. Le donne stavano in una sala riunite al pian terreno e godevano aere e luce; ma il luogo non era asciutto, i pagliericci sulla nuda terra ne traevano umidità, e questo era cagione di malattie.
(Silvio Pellico, op. cit., p. 25)

Carcere delle Ferrate, via San Domenico 32 (dal 1750)

La sua cura per le prigioniere durava già da tre anni, allorchè finalmente la casa delle Forzate le fu conceduta di mettervi chi Ella volesse, come le disse il custode. Ella dunque vi mise quelle del Senato, quelle del Correzionale e quelle delle Torri
(Silvio Pellico, op. cit. p. 32)

Questa prigione, fortemente voluta da Giulia di Barolo, rappresenta il punto di arrivo del suo impegno verso le detenute.

La scuola di Giulia

le lezioni erano faticose, nessuna di quelle femmine sapendo leggere. La Marchesa le divise per classi secondo che vedea maggior memoria e migliori disposizioni. …
Fece fare un grande alfabeto sopra una tela stesa da cornice, e sebbene le fosse ignoto il metodo usato dalle suore di San Giuseppe, immaginò ad un di presso il medesimo. Servivasi di una conocchia una battuta a terra quando fallivano, e tre quando la leggente doveva tacere per lasciar leggere la vicina
Le prigioniere pervenute a saper leggere vennero incaricate della scuola, e la Marchesa badava alla regolarità dell’insegnamento ed al successo.
(Silvio Pellico, op. cit., pp. 18, 36)

Il Rifugio e l'Ospedaletto Santa Filomena, via Cottolengo 24-26 (1820 e 1843)

Dopo che la Marchesa di Barolo ebbe fondato il Rifugio, il Canonico Cottolengo, di venerata memoria, comperò, adunando limosine, un vasto terreno contiguo e vi fabbricò un Ospedale. Il Rifugio prese gradatamente estensione con successive compre di case e di orti annessi, al che in seguito mise compimento l’attigua costruzione d’un monastero di penitenti Maddalene.
Ivi presso Giulietta elevò un’opera d’altro genere, l’ospedale denominato di Santa Filomena, per fanciullette inferme e storpie, e distaccatamente, ma a poca distanza, il monastero di Sant’Anna, estesa casa d’educazione per ragazze di famiglie civili non ricche ... Il Rifugio contiene abitazione per duecento penitenti, per due cappellani, e per un numero bastevole di suore ivi chiamate ad insegnare ed a reggere la casa al mondo che era stato fatto nelle carceri femminili.
(Silvio Pellico, op. cit., pp. 47-48)

Istituto Maddalene, via Cottolengo 24 (1839)

Il Rifugio prese gradatamente estensione con successive compre di case e di orti annessi, al che in seguito mise compimento l’attigua costruzione d’un monastero di penitenti Maddalene.
(Silvio Pellico, op. cit., pp. 47-48)

Le sale d'Asilo, via della Consolata, 18 (1825)

Praticando colle famiglie dei poveri e vedendo come spesso ivi i pargoletti patiscano e sieno per necessità trascurati dai genitori, si ricordò di aver visitato in Francia alcune sale d’asilo, e si convinse che, mediante uno spirito non di mondana filantropia, ma di vera religione, simili scolette infantili possono essere assai giovevoli. Fu dessa la prima ad introdurre in Piemonte e le pose nel proprio palazzo.
Ve ne sono due una pei maschi, l’altra per le femmine, ed in tutto vi si accolgono più di 260 fanciulli. L’ufficio delle maestre venne nei primi giorni affidato a persone secolari, poscia ad alcune suore d'una congregazione che l’abb. Rosmini aveva stabilita a Locarno. Queste furono surrogate da suore di Sant’Anna
...

Non si dipartì mai Giulietta dalla massima di effettuare le sue opere senza cercare di far rumore, quindi non è strano che poco si badasse alle sale d’asilo da Lei introdotte. Più tardi il suo esempio fu seguito in Torino e nelle provincie dello Stato.
(Silvio Pellico, op. cit., pp. 53-54)

La Chiesa di Santa Giulia, piazza Santa Giulia (1866)

Alla pietà della marchesa Giulia Falletti di Barolo, che vi spese settecentomila lire, devesi l’erezione del tempio. Il Municipio vi concorse per cinquantamila. L’opera è dell’architetto Ferrante.
La nuova chiesa aperta al culto nel 1866 bella pei suoi sesti, e pei suoi pinnacoli, è a tre navate ed a croce greca. Il quadro dell’altare maggiore rappresenta Santa Giulia, dipinta sul vetro, è un egregio lavoro del Cav. Bertini di Milano.
Il bellissimo crocifisso scolpito in legno è opera del Cav. Tamone.

(Giuseppe Torricella, Torino e le sue vie, Torino, Le livre precieux, 1971, p. 232)

I Marchesi di Barolo e Viù

a cura di Claudio Santacroce, Donatella Cane e Milo Julini

È noto nella Valle di Viù il notevole numero di opere benefiche a favore dei valligiani viucesi attuate dai marchesi Giulia e Tancredi Falletti di Barolo. Non appare altrettanto ben documentata la loro permanenza a Viù, che la tradizione locale più verosimile vuole avvenisse presso la Villa Schiari.
Nel 1837 il marchese Tancredi di Barolo, venuto a conoscenza della situazione economica e sociale di Viù, si fece promotore della costruzione di una strada carrozzabile che collegasse questo comune con Germagnano. Concesse in prestito alla amministrazione municipale la somma di lire 120.000 al tasso ridotto del 3,5% da restituirsi con l'istituzione di un dazio da esigersi per sedici anni presso il ponte delle Toglie e col ricavato del taglio dei boschi comunali. I lavori di costruzione della strada, iniziati nel 1838, si conclusero nel 1842. Il dazio fu abolito solo nel 1887.
La costruzione della strada costò una cifra superiore al preventivato, mentre il dazio ed i boschi rendevano poco. Il Comune di Viù si trovava in una grave crisi finanziaria e aveva pagato alla Marchesa soltanto una parte degli interessi, per cui il debito, nel 1860, era salito dalle iniziali lire 120.000, a lire 136.041,80. Dopo varie richieste e suppliche da parte del consiglio comunale la Marchesa, dimostrando la propria generosità e l'attaccamento a Viù, acconsentì a condonare metà del debito e tutti gli interessi, cioè in totale lire 76.041,80.

Giulia di Barolo e Viù

a cura di Claudio Santacroce, Donatella Cane e Milo Julini

Nel 1844 la marchesa Giulia di Barolo fondò a sue spese a Viù una scuola femminile, alla quale furono destinate due suore della Congregazione di Sant'Anna. Nel 1852 la Marchesa dovette chiudere la scuola ma ne propose la riapertura nel suo testamento. Nel 1867, l'Opera Pia Barolo riaprì la scuola e contribuì al suo mantenimento.
La scuola fu ospitata al secondo piano sopra gli uffici comunali nell'edificio che si trovava nella attuale piazza Vittorio Veneto, all'incirca sul sito dell'odierno municipio. Nel 1887 sulla facciata del municipio fu posta una lapide che ricordava i benefici ricevuti dai marchesi per la costruzione della strada e per l'istituzione della scuola femminile.
Questa scuola durò sino al 1927, cioè sino al riconoscimento della parifica e all'istituzione delle scuole pubbliche, poste nel fabbricato costruito nell'attuale piazzale del Volontario; due maestre però continuavano ad essere suore di Sant'Anna.
Le suore si trasferirono dal municipio alla Villa delle Torrette del Versino, dove nel 1930 fu aperta la scuola materna, spostata nel 1973 nell'edificio di viale Rimembranza intitolato a Vincenzina Virando. Nel 1943 le suore di Sant'Anna acquistarono la villa Pavaglione e la trasformarono in colonia climatica, oggi dedicata a Suor Enrichetta Dominici.
Vari viucesi furono alle dipendenze dei marchesi di Barolo, tra questi alcuni di cognome Marchis, tipico della frazione Polpresa, che potrebbero aver fatto conoscere alla Marchesa tale borgata, alla cui cappella fece almeno due offerte.
La marchesa di Barolo era molto cara ai viucesi ed è entrata nell'immaginario collettivo con caratteristiche forse lontane dal suo vero personaggio e piuttosto riconducibili alla baronessa Franchetti, con una "sovrapposizione" delle due benefattrici nei racconti tradizionali familiari ancor oggi tramandati.