Una public library a Torino
Premessa
Questa scheda è dedicata ad approfondire dal punto di vista storico la portata innovativa dell’istituto fondato a Torino nel 1869 (proposto da Giuseppe Pomba in Consiglio comunale fin dal 1855) in quanto prima realizzazione in Italia di quel modello di biblioteca pubblica affermatosi in Gran Bretagna a partire dalla metà del secolo XIX: il modello della public library.
Dapprima si accennerà alla particolare situazione delle biblioteche italiane prima e dopo l’Unità del paese, quindi si delineerà in breve il modello della public library sorto in Gran Bretagna ed i fattori decisivi che concorrono alla sua formazione, infine si vedrà come la Biblioteca civica di Torino, pensata in controtendenza con la realtà bibliotecaria del paese, rappresenti il tentativo di trasferire quel modello nella nostra città, proprio a metà del secolo XIX.
Le biblioteche italiane
A partire dall’età moderna le biblioteche in Italia vengono considerate come depositi di antichi e preziosi documenti, espressioni di un patrimonio spirituale giunto fino a noi dal tempo antico e quindi da conservare e tramandare. Molte di queste biblioteche sono certo destinate a uso “pubblico”, nel senso di essere aperte a studiosi ed eruditi, gli unici interessati e autorizzati a fruirne, ma non nel senso moderno di proprietà pubblica di tutti i cittadini. In età risorgimentale questa visione viene rielaborata in chiave “nazionale”: i tesori contenuti nelle biblioteche testimoniano di un passato inteso ormai come “italiano”.
Il nuovo Stato centralista opta per la creazione di un insieme di “biblioteche pubbliche statali” aperte a tutti ma destinate in definitiva a un ristretto pubblico di accademici, studenti universitari ed eruditi, confermando così la tradizionale concezione elitaria del sapere. Intanto, seppure in ritardo rispetto ad altri paesi europei, l’industrializzazione induce, soprattutto nelle aree centro-settentrionali, il mutamento sociale, la crescita di nuovi bisogni culturali e di nuovi stili di vita. Limitatamente alla popolazione alfabetizzata iniziano a farsi strada nuove esigenze di lettura, focalizzate sull’attualità, sull’informazione periodica anche politica e sul sapere pratico, esigenze talvolta anche solo di mera ricreazione.
Oltre all’insieme delle biblioteche statali esistono moltissime biblioteche minori, comunali o di altri enti, destinate al pubblico più ampio dei ceti medio-bassi ma dotate però di scarsi finanziamenti e generalmente inadeguate a far fronte alle nuove richieste che si stanno delineando. Richieste che vanno di pari passo con l’espansione della produzione editoriale derivante dalle innovazioni tecnologiche legate alla stampa.
In materia di biblioteche il confuso centralismo governativo non si dimostra in grado di stanziare fondi sufficienti per mantenere il complesso sistema degli istituti statali, né di demandarne la gestione di una parte agli enti locali, per l’ovvia ragione che questi ultimi non sono in regime di autogoverno finanziario. In generale, quindi, le biblioteche italiane, sia le statali che le minori, ancora viste tradizionalmente come custodi di un grande passato, scarsamente finanziate, senza legami amministrativi con il territorio in cui sono nate, oberate da una quantità enorme di libri devozionali provenienti dagli enti religiosi soppressi, mai inquadrate in una legge generale finalizzata a organizzarle in ragione delle diverse competenze e destinazioni, vengono percepite sempre più come istituti inutili e inservibili a soddisfare le nuove richieste di lettura provenienti da una società in mutamento.
In risposta a questa situazione bloccata nascono, da un lato, i gabinetti letterari, dedicati principalmente al pubblico colto della nuova borghesia dove i sottoscrittori possono disporre di libri aggiornati sui temi scientifici e di attualità; dall’altro lato si moltiplicano le biblioteche popolari, frutto di iniziative filantropiche private e dotate di materiale destinato all’educazione della classe popolare. Esperienze senza dubbio importanti, ma che nel quadro disorganico della politica bibliotecaria italiana si rivelano inadatte a colmare le mancanze strutturali del sistema: si è molto distanti dal modello della public library, la biblioteca per tutti, che a metà Ottocento vede la luce in Gran Bretagna.
Gran Bretagna, metà Ottocento: la nascita di un nuovo modello di biblioteca pubblica
La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sociali, che abbiamo visto attuarsi anche in Italia dopo l’Unità, seppure in ritardo ed entro certi limiti, hanno preso avvio Gran Bretagna già a partire dalla seconda metà del secolo XVIII e sono quindi, nei primi decenni del secolo XIX, in pieno e dinamico sviluppo. Le contrastate istanze di cambiamento sociale e politico provenienti da una società in forte e conflittuale evoluzione ma ancora dominata dall’aristocrazia e dalla proprietà terriera trovano risposta nelle riforme avviate a partire dagli anni ’30 del secolo XIX dal partito Whig (partito che in seguito si chiamerà “liberale”) allora prevalente in Parlamento sui Tories. Ricordiamo a questo proposito il Reform Act del 1832, legge approvata anche grazie alla pressione dell’opinione pubblica, che estende il diritto di voto.
Fondamentale per l’affermazione della public library è stato il Municipal Corporation Act del 1835: la riforma del governo locale che consente agli enti di eleggere, sulla stessa base censuaria stabilita dal Reform Act, consigli che possono, tra l’altro, approvare l’imposizione di nuove tasse e la richiesta di prestiti per finanziare servizi ritenuti utili per la comunità. Anche questa legge viene incontro alla richieste di maggiore partecipazione politica da parte dei ceti borghesi emergenti, in grado di far sentire la propria voce di cittadini contribuenti attraverso vari organismi ed iniziative. La stampa periodica, settore in espansione, contribuisce non poco al dibattito sulle riforme.
In mancanza di una legislazione scolastica (realizzata solamente nel 1870 a causa dell’avversione liberista agli interventi statali in ambito socio-economico), l’educazione delle classi popolari è demandata a iniziative filantropiche private, religiose e laiche: la lotta contro l’ignoranza viene perseguita in vista del rafforzamento dell’armonia sociale, considerato di estrema importanza in una società in cui il conflitto tra capitale e lavoro spesso rischia di mettere in discussione l’ordine costituito. Peraltro, la forte componente economica all'interno dei fattori sociali che accompagnano la rivoluzione industriale favorisce nella politica liberale la riflessione sulla potenzialità dell’istruzione al fine dello sviluppo delle classi lavoratrici: lavoratori meglio istruiti sono probabilmente lavoratori migliori. In questa visione, l’istruzione può agire come fattore di sviluppo industriale di settori economici come editoria e stampa periodica.
In questo contesto ormai maturo, grazie all’azione congiunta di due importanti personalità, il politico liberale William Ewart (1798-1869) e il bibliotecario Edward Edwards (1812-1866), si giunge per passi successivi all’approvazione nel 1850 del Public Libraries Act. Ewart, impegnato politicamente fin dalla seconda metà degli anni Trenta sulla questione del sostegno ai fattori di sviluppo del settore industriale, partecipa al dibattito parlamentare sul tema proponendo senza successo di istituire musei, gallerie e biblioteche aperte al pubblico. Ispirandosi a questa proposta, Edwards elabora un progetto che prevede, al fine di finanziarne la realizzazione, il ricorso a fondi governativi e un’imposta dedicata. Nel 1844 un nuovo provvedimento consente alle amministrazioni locali, grazie alla legge del 1835, di destinare una parte del gettito fiscale all’apertura di musei pubblici. Il consiglio degli eletti della città di Manchester vota immediatamente a favore del provvedimento che nel 1845, su proposta di Ewart, viene approvato in Parlamento come Museum Act. È a partire da questo momento, quindi, che tramite un’imposta locale votata dal consiglio dei cittadini eletti e non grazie all’intervento filantropico di privati possono nascere istituti culturali giudicati utili per la comunità.
Analogamente si giunge all’approvazione del Public Libraries Act. Ewart, rifacendosi a un articolo di Edwards e partendo dalla constatazione dell’arretratezza della Gran Bretagna in materia di biblioteche pubbliche, propone in Parlamento la nomina di una commissione che studi il problema ed elabori il progetto di un sistema di biblioteche su tutto il territorio. Un’ottima proposta, secondo Ewart, per le amministrazioni comunali, tale da consentire loro di impegnarsi a favore dell’istituzione di un servizio utile alla comunità.
Durante il 1849 la commissione lavora al progetto di biblioteche freely open to the public, biblioteche istituite non per conservare il patrimonio librario del passato ma per mettere a disposizione del pubblico volumi utili e attuali, di ampia circolazione, portatori di un sapere pratico o anche semplicemente ludici, destinati, insieme ai periodici, a tutta la comunità.
Ewart considera necessaria una legge che, al pari del Museum Act, disciplini il prelievo fiscale locale e il finanziamento statale del settore: la biblioteca pubblica viene cioè considerata un’istituzione destinata all’educazione di base dell’intera popolazione e inserita nel quadro generale dello sviluppo dell’istruzione pubblica. Certamente la public library è destinata fin dall’inizio all’emancipazione culturale della working class, ma il suo carattere peculiare risiede nel fatto che essa, istituzionalmente destinata a tutti i cittadini, è pensata come luogo di comunicazione e integrazione sociale. Il Public Libraries Act entra ufficialmente in vigore il 14 agosto 1850: il nuovo modello di biblioteca pubblica presto si diffonderà con successo a livello internazionale.
La Biblioteca civica di Torino
Giuseppe Pomba, libraio ed editore torinese e membro del Consiglio comunale dal 1849, così si esprime nel maggio 1855 presentando ai colleghi consiglieri la proposta di istituire una biblioteca pubblica in Torino: Farebbe quindi opera santissima il Municipio fondando una Biblioteca sua propria ed ad uso non solo di questi allievi delle pubbliche Scuole Comunali ma di tutti i cittadini, fornendola non tanto di quelle opere che solamente servono, dirò così, d’ornamento alle sale, ma precipuamente di quelle di vero uso pratico e di vera utilità agli studiosi delle scienze fisiche e chimiche applicate alle arti, della meccanica e delle altre scienze positive.
In queste parole, semplici e chiare, è possibile rintracciare tutta la carica innovativa insita nella proposta.
Prima di tutto, la nuova biblioteca deve essere comunale, cioè proprietà di tutti i cittadini. Essa deve essere “pubblica” in questo senso e non in quello generico di essere aperta al pubblico, come la Biblioteca universitaria, l’unica grande biblioteca al tempo presente in città, e altre biblioteche minori. La nuova biblioteca deve essere utile a tutti i cittadini: la sua dotazione libraria aggiornata alle moderne esigenze di studio, mentre, ad esempio, la Biblioteca universitaria si rivolge con le sue antiche raccolte a un ristrettissimo numero di frequentatori. Altrettanto evidente è la finalità educativa: la biblioteca deve aggiungersi, integrandole, alle numerose iniziative concernenti lo sviluppo della pubblica istruzione che il Comune da tempo e con successo ha messo in campo.
Probabilmente proprio a causa del suo carattere innovativo, allora non pienamente compreso, unitamente alle difficoltà finanziarie in cui versa il Comune in quegli anni e, in seguito, alla grave crisi del 1864 (anno del trasferimento della capitale) e all’epidemia di colera che colpisce la città tra il 1867 e il 1868, trascorrono ben quattordici anni prima che il progetto possa realizzarsi.
Certamente un elemento che gioca negativamente è l’assenza in Italia del regime di self-government politico e finanziario degli enti locali che, come si è visto, costituisce un fattore determinante nel processo che porta all’elaborazione in Gran Bretagna del modello della public library. Certamente un elemento che gioca negativamente è l’assenza in Italia del regime di self-government politico e finanziario degli enti locali che, come si è visto, costituisce un fattore determinante nel processo che porta all’elaborazione in Gran Bretagna del modello della public library: il modello di una biblioteca “per tutti” voluta dai rappresentanti politici borghesi della comunità, finanziata con apposita imposta, al fine di rispondere ai nuovi bisogni di lettura e al contempo socialmente ed economicamente utile.
A questa mancanza Giuseppe Pomba sopperirà facendo appello ai i suoi concittadini affinché sostengano e facciano propria la sua proposta con contributi e donazioni di volumi, appello che fin dall’inizio riscuoterà un grande successo: segno della consapevolezza ormai diffusa, testimoniata anche da varie campagne giornalistiche, di quanto maturo fosse nella nostra città il contesto socio economico per l’istituzione di una simile biblioteca.
Per altro verso, si possono in parte comprendere le titubanze e le indecisioni degli amministratori pubblici di fronte ad una proposta così lungimirante e tale da precorrere i tempi: si trattava in fondo di scommettere, anche finanziariamente, sull’esistenza ancora solo virtuale di un pubblico di moderni lettori.
La biblioteca viene inaugurata nel febbraio 1869 e l’adesione di quei lettori, fin dal suo inizio e durante gli anni e i decenni seguenti, nonostante i problemi e le immancabili difficoltà, è sempre aumentata.
Per approfondire
Per il approfondire l’argomento si consulti la bibliografia sulla Biblioteca civica.
In particolare si veda la tesi di Andrea Viola (relatore prof. Maurizio Vivarelli), alla quale si è fatto diretto riferimento per l’elaborazione di questa scheda:
Viola, Andrea, Per una storia della Biblioteca civica di Torino: ordinamento ed analisi delle fonti documentarie. Tesi di laurea. Torino, Università di Torino, a.a. 2014-2015
Testo di Gianfranco Bussetti (Ufficio Studi locali)
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